Gli Effinger

Arrivare alla fine, e cioè a pagina 888 (utilissima postfazione esclusa), significare giungere sulla vetta della montagna, dopo un viaggio lungo, ma non arduo, non esasperante. Gli Effinger (Einaudi editore), romanzo della scrittrice e giornalista tedesca Gabriele Tergit (alias Elise Hirschmann, 1894 – 1982) si rivela la narrazione fluviale della storia di due famiglie ebree tedesche, imparentate fra loro, in un lasso di tempo che va dalla cancelleria di Bismarck fino all’avvento del nazismo e allo sterminio di molti dei personaggi nei campi di concentramento. Il capitolo finale mostra una Berlino devastata, con qualche bagliore di speranza per il futuro, ma con la desolazione delle famiglie disperse e delle loro dimore lasciate nell’abbandono (una nemesi storica, sembra suggerire l’autrice, una colpa dei tedeschi a cui le vittime, in specie proprio gli ebrei, non hanno saputo far fronte in modo efficace).

Il romanzo trae modello e ispirazione da un capolavoro di Thomas Mann, I Buddenbrook, a sua volta una saga famigliare, da cui si ricavano alcuni spunti e il colore per disegnare certi personaggi. Anche nel caso de Gli Effinger, il lettore si trova alle prese con un bildungroman, un romanzo di formazione, che lo guida dalla giovinezza all’età adulta di alcuni protagonisti, mentre altri si bloccano in una immaturità emotiva stroncata dalla morte, o anche dall’incapacità di andare oltre, di varcare la soglia.

Il romanzo di formazione è un tipico prodotto della cultura tedesca (basterebbe pensare a Goethe), anche se non si debbono trascurare esempi consimili in altre nazioni, più o meno nello stesso periodo: I Thibaud di Martin Roger du Gard in Francia e soprattutto La saga dei Forsyte di Galsworty in Inghilterra, eredi a loro volta della ciclopica impresa del ciclo di romanzi di Emile Zola, incentrati sulle intricatissime vicende della famiglia dei Rougon – Macquart.

Con una scrittura limpida ed accattivante, con il ritmo calibrato dei dialoghi, e l’incisività con la quale ricostruisce, con pochi tratti, gli interni delle dimore borghesi e gli esterni (la fabbrica, le piazze, i giardini, i locali notturni), Tergit documenta il fluire del tempo in una sinfonia maestosa, che riesce ad illustrare i cambiamenti dell’economia, la mentalità e le reazioni di uomini e donne che si vedono mutare irrimediabilmente, accanto, e dentro, la storia. Successi e crolli sono affrontati con imperturbabile compostezza. Gli avvenimenti principali (e cioè la prima guerra mondiale, la crisi economica della Repubblica di Weimar, la necessità di adattare ai tempi e alle esigenze moderne il prodotto delle fabbriche) vengono sempre colti dall’interno della cerchia industriale e borghese dei protagonisti, foltissima e sempre unita, nonostante gli inevitabili contrasti personali. Solo nella parte conclusiva, in cui l’ipocrisia dei nazisti che si insinuano lentamente come un cancro, con l’intento di escludere lentamente, e brutalmente, gli ebrei dai loro possedimenti e dal loro stesso diritto alla cittadinanza e alla vita, il ritmo assume cadenze più cupe, con la successione sempre più odiosa delle prepotenze, a cui gli ebrei oppongono troppo spesso ingenuità e impotenza. Forse qui si appunta una critica della Tergit ai suoi correligionari, che non hanno saputo interpretare i tempi ed avvertire i pericoli di un uomo crudele e fanatico come Hitler, che troppo spesso è stato sottovalutato alla stregua di un grottesco parvenu.

Alla fine la scrittrice dà atto alla lungimiranza degli ebrei che hanno abbandonato la Germania in tempo e hanno trovato una nuova esistenza nello stato di Israele. Questa scelta peraltro non produce né ammirazione né una particolare simpatia nella scrittrice, semmai una velata critica per quel tanto di costrittivo e illiberale coglie nel nuovo stato e soprattutto per quella sorta di tradimento che i nuovi coloni hanno operato ai danni della loro cultura, tedesca, di appartenenza.

Il filo conduttore, almeno emotivo, che lega il susseguirsi delle vicende e la miriade dei personaggi (si impone infatti un albero genealogico all’inizio, da consultarsi continuamente) consiste nella dimostrazione di come gli ebrei siano tedeschi fino in fondo, e che rechino in sé i frutti migliori della cultura liberale e del riformismo socialista (oltre che un’etica del lavoro che assume una valenza eroica): valori tutti che il nazismo ha sradicato, ma a cui anche gli ebrei non sono riusciti a rimanere fedeli fino alla fine (e si veda il drammatico confronto tra il saggio Waldemar – un modello di intelligenza e di tolleranza – e la nipote che progetta di partire per la Palestina, dove intende ricostruirsi una nuova vita).

Tergit si rende conto, pur senza esasperare i toni di una scrittura di mirabile medietas, che gli ebrei tedeschi, nella loro religione e cultura, sono scomparsi nei meandri della storia: da qui il rimpianto di quel mondo elegante ed industrioso, il fascino dei loro rituali, la perfezione dell’architettura e degli arredi delle loro case. Sono pagine ricche di luce e di partecipazione, che non risultano mai inerti e superflue.

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