In una delle lettere indirizzate ai suoi numerosi corrispondenti, Agostino di Ippona offre un consiglio di grande saggezza: “Qualche volta dobbiamo permettere che una spessa coltre di nebbia copra le nostre azioni”. In un’antropologia che rimane radicalmente negativa (la Storia rimane pur sempre civitas diaboli), il più grande filosofo della Cristianità si abbandona ad un consiglio di grande tolleranza e comprensione delle debolezze umane: data per scontata la prospettiva dell’errore (e della colpa), che fa tutt’uno con la natura dell’uomo, quest’ultimo dovrebbe anche riuscire a perdonarsi, e a non vedere con la spietata chiarezza del rimorso il male che ha fatto, o che potrebbe fare.
Esattamente questo è il problema di Pietro Vella, protagonista dell’affascinante quanto misterioso film di Daniele Luchetti, Confidenza, tratto dall’omonimo romanzo di Domenico Starnone, con cui il regista è da tempo legato da un rapporto preferenziale (e si pensi a La scuola e a Lacci, così vicino, nell’intonazione e nella tecnica a quest’ultima opera).Inquadrato in piena luce, Pietro è l’uomo che tutti vorrebbero avere per amico: ispira una simpatia istintiva; trionfa nelle relazioni che richiedono affetto ed empatia sincera. Come insegnante si affida ad un metodo didattico che Luchetti ( e Starnone con lui) sottoscrive pienamente: libero e anticonvenzionale nel rapporto coi suoi studenti, si vanta di non seguire un metodo vero e proprio (e qui si può cogliere una critica all’ubriacatura pedagogica del Ministero), basa il suo insegnamento sull’affetto e la fiducia verso i suoi ragazzi (“Imparavamo perché ci volevi bene” dichiara Teresa Quadraro, sua allieva difficile, sua amante e poi, dietro impulso del suo insegnante, genio della matematica, di fama internazionale. Infine, inquietante alter ego). Pietro è poi attento nei confronti di una moglie da cui cerca stabilità, tormentata a sua volta dall’angoscia di essere una fallita, una Tersa priva di riscatto; infine è affettuosissimo con i suoi nipotini e con una figlia che lo ricambia con una specie di adorazione.
Eppure, il protagonista appare un uomo dalla personalità ambigua e dal carattere instabile. Luchetti e Piccolo (che sceneggia il film insieme al regista) pongono in continuo rilievo la sua inquietudine, la scarsa presa sulla realtà, attraverso un racconto declinato (si direbbe) tutto in soggettiva, in cui i ricordi si mescolano a momenti allucinatori, in cui un desiderio violento si trasforma in un dato) reale e in cui quello che viene e mostrato, si rivela spesso una visione contaminata dall’ossessione. Ad un certo punto, anche al personaggio (e allo spettatore) non è più concesso di sapere ciò che è reale e ciò che è frutto di uno stato allucinatorio, fino al metaforico rimpiattarsi del personaggio in una cassa accuratamente chiusa: all’apice del successo, poco prima di ricevere una prestigiosa onorificenza pubblica, Pietro si annulla, la sua coscienza si azzera nell’ossessione di una misteriosa colpa commessa. La parte in ombra finisce per prevalere.
Ciò che incrina la positiva solidità del personaggio (un Elio Germano, efficacissimo come sempre) è l’incauta confidenza concessa a Teresa, sua convivente, in merito alla cosa più terribile e vergognosa che ha commesso in vita sua: un gesto che potrebbe rovinarlo per sempre. Dopo la separazione definitiva con la ragazza, e la scelta di una strada che li conduce lontano l’uno dall’altra, i due personaggi si incontrano ancora, saltuariamente, sotto la cappa minacciosa di una rivelazione che mostrerebbe Pietro incatenato ad un gesto e ad una condizione esistenziale che egli non vorrebbe mai che fossero conosciuti (e il suo terrore riguarda soprattutto sua figlia, una Pilar Fogliati sempre più a suo agio con personaggi più complessi di quelli interpretati ai suoi esordi). La prospettiva di una rivelazione scandalosa (così angosciante che gli appare come un precipitare – o essere spinto . nel vuoto) non risulta affatto priva di senso, non solo per le continue apparizioni di Teresa, e per le sue ambigue parole, ma per l’enigmatica presenza della donna, quasi un fantasma persecutorio, una compagna segreta che scruta dentro, che turba e confonde (bravissima Federica Rosellini, dagli occhi infuocati e fissi, terribilmente penetranti).
Per quanto continuamente attraversato dal sospetto che Luchetti metta in scena un’ossessione, o forse addirittura un’allucinazione continua (Teresa è un personaggio reale al quale Pietro finisce per attribuire i tratti di una coscienza implacabile), Confidenza appare un’indagine crudele sulla fragilità e la doppiezza dell’animo umano, in piena sintonia con un pirandellismo, che nasce dalla crisi, e che si trova molto a suo agio in un’epoca, come la presente, in cui i punti fermi sono saltati. Nel suo versante positivo, può essere un monito a non assolutizzare mai le proprie virtù (la componente in piena luce), accettando di conseguenza i limiti e la debolezza della natura umana. Luchetti insiste però sul versante angoscioso, distruttivo e autodistruttivo del carattere del protagonista: il rinchiudersi nella metaforica scatola coincide con la rinuncia ad un legame con gli altri e ad una ammissione che (forse) potrebbe salvarlo.