Confidenza

In una delle lettere indirizzate ai suoi numerosi corrispondenti, Agostino di Ippona offre un consiglio di grande saggezza: “Qualche volta dobbiamo permettere che una spessa coltre di nebbia copra le nostre azioni”. In un’antropologia che rimane radicalmente negativa (la Storia rimane pur sempre civitas diaboli), il più grande filosofo della Cristianità si abbandona ad un consiglio di grande tolleranza e comprensione delle debolezze umane: data per scontata la prospettiva dell’errore (e della colpa), che fa tutt’uno con la natura dell’uomo, quest’ultimo dovrebbe anche riuscire a perdonarsi, e a non vedere con la spietata chiarezza del rimorso il male che ha fatto, o che potrebbe fare.

Esattamente questo è il problema di Pietro Vella, protagonista dell’affascinante quanto misterioso film di Daniele Luchetti, Confidenza, tratto dall’omonimo romanzo di Domenico Starnone, con cui il regista è da tempo legato da un rapporto preferenziale (e si pensi a La scuola e a Lacci, così vicino, nell’intonazione e nella tecnica a quest’ultima opera).Inquadrato in piena luce, Pietro è l’uomo che tutti vorrebbero avere per amico: ispira una simpatia istintiva; trionfa nelle relazioni che richiedono affetto ed empatia sincera. Come insegnante si affida ad un metodo didattico che Luchetti ( e Starnone con lui) sottoscrive pienamente: libero e anticonvenzionale nel rapporto coi suoi studenti, si vanta di non seguire un metodo vero e proprio (e qui si può cogliere una critica all’ubriacatura pedagogica del Ministero), basa il suo insegnamento sull’affetto e la fiducia verso i suoi ragazzi (“Imparavamo perché ci volevi bene” dichiara Teresa Quadraro, sua allieva difficile, sua amante e poi, dietro impulso del suo insegnante, genio della matematica, di fama internazionale. Infine, inquietante alter ego). Pietro è poi attento nei confronti di una moglie da cui cerca stabilità, tormentata a sua volta dall’angoscia di essere una fallita, una Tersa priva di riscatto; infine è affettuosissimo con i suoi nipotini e con una figlia che lo ricambia con una specie di adorazione.

Eppure, il protagonista appare un uomo dalla personalità ambigua e dal carattere instabile. Luchetti e Piccolo (che sceneggia il film insieme al regista) pongono in continuo rilievo la sua inquietudine, la scarsa presa sulla realtà, attraverso un racconto declinato (si direbbe) tutto in soggettiva, in cui i ricordi si mescolano a momenti allucinatori, in cui un desiderio violento si trasforma in un dato) reale e in cui quello che viene e mostrato, si rivela spesso una visione contaminata dall’ossessione. Ad un certo punto, anche al personaggio (e allo spettatore) non è più concesso di sapere ciò che è reale e ciò che è frutto di uno stato allucinatorio, fino al metaforico rimpiattarsi del personaggio in una cassa accuratamente chiusa: all’apice del successo, poco prima di ricevere una prestigiosa onorificenza pubblica, Pietro si annulla, la sua coscienza si azzera nell’ossessione di una misteriosa colpa commessa. La parte in ombra finisce per prevalere.

Ciò che incrina la positiva solidità del personaggio (un Elio Germano, efficacissimo come sempre) è l’incauta confidenza concessa a Teresa, sua convivente, in merito alla cosa più terribile e vergognosa che ha commesso in vita sua: un gesto che potrebbe rovinarlo per sempre. Dopo la separazione definitiva con la ragazza, e la scelta di una strada che li conduce lontano l’uno dall’altra, i due personaggi si incontrano ancora, saltuariamente, sotto la cappa minacciosa di una rivelazione che mostrerebbe Pietro incatenato ad un gesto e ad una condizione esistenziale che egli non vorrebbe mai che fossero conosciuti (e il suo terrore riguarda soprattutto sua figlia, una Pilar Fogliati sempre più a suo agio con personaggi più complessi di quelli interpretati ai suoi esordi). La prospettiva di una rivelazione scandalosa (così angosciante che gli appare come un precipitare – o essere spinto . nel vuoto) non risulta affatto priva di senso, non solo per le continue apparizioni di Teresa, e per le sue ambigue parole, ma per l’enigmatica presenza della donna, quasi un fantasma persecutorio, una compagna segreta che scruta dentro, che turba e confonde (bravissima Federica Rosellini, dagli occhi infuocati e fissi, terribilmente penetranti).

Per quanto continuamente attraversato dal sospetto che Luchetti metta in scena un’ossessione, o forse addirittura un’allucinazione continua (Teresa è un personaggio reale al quale Pietro finisce per attribuire i tratti di una coscienza implacabile), Confidenza appare un’indagine crudele sulla fragilità e la doppiezza dell’animo umano, in piena sintonia con un pirandellismo, che nasce dalla crisi, e che si trova molto a suo agio in un’epoca, come la presente, in cui i punti fermi sono saltati. Nel suo versante positivo, può essere un monito a non assolutizzare mai le proprie virtù (la componente in piena luce), accettando di conseguenza i limiti e la debolezza della natura umana. Luchetti insiste però sul versante angoscioso, distruttivo e autodistruttivo del carattere del protagonista: il rinchiudersi nella metaforica scatola coincide con la rinuncia ad un legame con gli altri e ad una ammissione che (forse) potrebbe salvarlo.

Perfect blue

Il recente restauro di questo classico anime del cinema giapponese, Perfect blue di Satoshi Kon, consente di gustare un simile gioiello nell’eleganza raffinata dei suoi disegni e nella lucentezza dei colori: un’ ottima occasione per vederlo al cinema, anche se il suo passaggio nelle sale è breve (ma è possibile però ricorrere allo streaming, in caso di necessità). Perfect blue è passato alla storia come un anime (e cioè un film di animazione) concepito interamente per gli adulti. Infatti un progetto originario prevedeva la realizzazione con attori in carne ed ossa, soluzione che avrebbe certamente portato ad una diminuzione del valore del film. Infatti l’animazione consente allo sceneggiatore e al regista una opportuna libertà inventiva nel confezionare una storia thriller dai toni cupi che forse un film recitato con attori veri non avrebbe permesso,

La trama, che prende avvio senza particolari fratture logiche nel racconto, è incentrata su Mima, componente di un gruppo di idols (cioè ragazze adolescenti che cantano e ballano, spesso vestite con l’uniforme della scuola, e simbolo – nella mentalità del pubblico giapponese – di ingenuità e innocenza), che sembrano riscuotere un grande successo, tanto da suscitare le sgradevoli attenzioni di un fan dal volto deturpato, che la segue e la spia in modo ossessivo. La situazione sembra precipitare quando Mima decide di abbandonare il gruppo per diventare prima attrice, e poi modella in foto sexy, che non hanno nulla a che fare con la sua carriera precedente, La decisione, che la protagonista rivendica continuamente come una sua precisa scelta, ma che divide il pubblico dei fan, è in realtà la conseguenza di una strategia messa in atto dal suo staff di scopritori, convinti che la carriera di Mima come idol sia giunta al termine e che le convenga percorrere un’altra strada. La nuova carriera della ragazza scatena una serie di efferati delitti, che finiranno per sconvolgere psicologicamente la protagonista, fino allo svelamento dell’identità del colpevole: una soluzione che però non si rivela catartica, perché si lascia alle spalle molte ambiguità e molte domande senza risposta. Del resto, anche le scelte narrative destano sconcerto: fratture temporali e logiche, situazioni che si ripetono identiche in una sorta di circolo vizioso, continue confusioni tra la realtà e la trama del film che Mima sta recitando, affermazioni apodittiche che vengono regolarmente smentite. La sceneggiatura regge in maniera mirabile una trama complessa e franta, senza che lo spettatore si smarrisca, ma lasciandogli una sensazione di irrealtà e di ambiguità che si prolunga fino all’ultima spiazzante inquadratura nella quale la protagonista dichiara con sicurezza. “Ora sono veramente io”, lasciando intendere peraltro che l’affermazione non sia vera, come le tante altre pronunciate nel film. Si ricava quindi l’impressione, nella protagonista, di una fragilità e di una instabilità psicologica riflessa appunto nelle fratture e nelle incertezze della trama.

Perfect blue si pone come il prototipo di un anime da non tenere alla portata dei bambini: segue infatti lo stile del thriller truculento con probabili richiami sia a Dario Argento (la scena splatter del fotografo accoltellato ricorda da vicino la sua tecnica). sia alle opere del cinema sexy – thriller italiano degli anni Settanta (alla Aldo Lado, Lucio Fulci, Sergio Martino, per capirci: autori di film di grande interesse, ancorché snobbati dalla critica “seria”). Il divertimento è assicurato.

Tuttavia, ciò che costituisce il valore aggiunto di Perfect blue si risolve nella volontà di rappresentare, con coerenza e grande efficacia, i turbamenti e l’esito traumatico di una crisi di crescita e di passaggio dall’adolescenza all’età matura, in cui è necessario cambiare volto e personalità, ed esercitare la propria autonomia. L’insistenza di Mima di voler cambiare sulla base di una decisione autonoma, che la induce a sfondare in un diverso campo professionale appare, da questo punto di vista, rivelatrice: si tratta infatti di accogliere, o meno, la nuova identità con i pericoli che questa decisione comporta.

Per un altro verso, Satoshi Kon si spinge ancora oltre, fino ad approdare ad una critica radicale del fenomeno delle idols, così diffuso in Giappone, e così ambiguo nella sua mescolanza di erotismo soft e di idoleggiamento della semplicità e dell’innocenza adolescenziale. I limiti della pedofilia, insomma, sono sfiorati, se non proprio attraversati.

La difficoltà di Mima nell’accettare il cambiamento (e dunque la maturità) e lo strappo angoscioso quando è costretta ad assumere una personalità nuova, sono indicati come l’acuirsi della crisi di identità di una ragazza “normale”, che il mercato e i media hanno fagocitato, e che si dibatte nello sforzo di uscire dalla condizione che le è stata imposta.

Controversie per un massacro

Chiunque si accinga ad approfondire un argomento, per ragioni di studio o per interesse personale, scopre prima o poi quanto possa essere utile un supporto, un libro magari, che segnali i nodi concettuali della questione, le discussioni e le polemiche che ha suscitato, a maggior ragione quando l’argomento è controverso e complicato, tanto da non poter trovare un punto di sintesi tra le varie opinioni.

Risulta allora facile apprezzare un volume come Controversie per un massacro di Dino Messina, un autore che sa coniugare l’informazione e il rigore dello storico con lo stile sciolto e coinvolgente del miglior giornalismo. E questa volta l’argomento da esplorare appare davvero arduo: l’attentato di via Rasella da parte dei partigiani e la reazione sanguinosa dei nazisti, che pretesero una rappresaglia misurata su 10 vittime italiane per un tedesco (in realtà le vittime furono 335, cinque in più rispetto al conteggio punitivo dei responsabili, per la fretta nello stilare la lista dei condannati – come fu detto a giustificazione – o forse per eliminare testimoni scomodi che avevano visto troppo). Vale la pena di sottolineare subito, proprio per non cadere nella trappola di un giustificazionismo che alleggerisce le colpe dei criminali, che le modalità dell’esecuzione furono atroci: caterve di cadaveri abbattuti con un colpo alla nuca, e con raffiche di mitra, che le ultime vittime dovevano scavalcare prima di essere uccisi a loro volta. Un testimone ha raccontato delle grida strazianti che provenivano dalle cave di pozzolana, trasformate in un immenso cimitero.

Messina, che si impegna anche ad indicare quali testimonianze storiche e diaristiche risultino più attendibili, suddivide l’argomento in tante, più minute. questioni, si fa largo tra le innumerevoli testimonianze, concede la parola anche ai criminali e ai loro simpatizzanti, ricavandola dalle testimonianze rilasciate in tribunale. Non di rado si serve dei racconti autobiografici dei Gap (gruppi di azione patriottica), gli autori dell’attentato, e del resoconto dei parenti dei morti nell’attentato e di quelli delle vittime dei tedeschi per rendere più obiettiva, attendibile e vivace la narrazione.

Alla base del volume vi sono alcuni punti di approdo che l’autore mantiene saldi, nonostante i pareri avversi e i dubbi che continuano ad essere diffusi. Va considerata una falsità smaccata l’accusa agli attentatori di non essersi presentati al comando tedesco per autodenunciarsi ed impedire il massacro degli ostaggi (molti dei quali già condannati a morte, e che sarebbero morti comunque): l’esecuzione avvenne immediatamente, in uno stretto giro di ore necessario a compilare le liste dei morituri, e coperto dal mistero, tanto che il trasbordo alle fosse avvenne in tutta fretta. L’imboccature delle cave fu poi fatta saltare con le mine e ricoperta da mucchi di rifiuti proprio per occultare il fetore dei cadaveri. Ai nazisti (come poi essi stessi confessarono) premeva che l’eccidio venisse perpetrato in silenzio, per evitare eventuali proteste o atti di forza da parte della popolazione, desiderosa di liberare i prigionieri.

Un’altra falsità riguarda il carattere e la destinazione del battaglione Bozen fatto oggetto dell’attentato: vine spesso spacciato per una milizia pacifica di altoatesini italiani, che non svolgevano compiti di carattere bellico, e venivano occupati in mansioni di scarsa incidenza. In realtà, gli altoatesini in questione avevano operato una scelta precisa a favore dei tedeschi, e svolgevano anche compiti di rastrellamento e di polizia, e quindi erano militari (e nemici) a tutti gli effetti, parte del progetto di occupazione nazista che i gappisti volevano scuotere.

Infine, Messina polemizza in maniera forse troppo severa con il papa, Pio XII, che certo non aveva i combattenti in simpatia, e riteneva l’attentato un gesto sbagliato, per non dire criminale, ma che era anche comprensibilmente preoccupato che Roma diventasse teatro di scontri sanguinosi tali da precipitarla in un abisso senza uscita. Peraltro neppure l’azione dei nazisti venne da lui giustificata; al contrario fu condannata con dure proteste, sia pure non ufficiali, come ricorda Enzo Forcella nel suo La Resistenza in convento, non citato in bibliografia.

Dal momento che l’attentato fu “un legittimo atto di guerra” come riconobbe (con qualche stento) la giustizia italiana, è tuttavia possibile discutere sull’opportunità di quella azione (che non tutti i partiti del Cln approvarono, e che nacque da una scelta autonoma dell’ala più combattiva del Pci). La risposta va inquadrata nel discorso più generale della liceità della violenza resistenziale (che, com’è noto, non tutti approvano ancora adesso, preferendo la soluzione di un attendismo che poneva automaticamente gli italiani nel ruolo – e nel pregiudizio – di uomini vili e di liberati passivi, senza alcun merito): se però essa viene accettata come soluzione ad uno stato di cose drammatico, alla luce anche del fatto che molto giovò agli italiani al momento di pagare per la loro entrata in guerra a fianco di Hitler, bisogna anche ammettere che la lotta partigiana si mostrò una classica guerra “asimmetrica”, nel quale un gruppo organizzato ma numericamente inferiore, doveva combattere contro l’esercito più potente e combattivo d’Europa. Il ricorso alla guerriglia e agli attentati acquista allora un altro peso, per quanto terribili siano state le conseguenze che ha provocato.

La modalità dell’atto terroristico ha provocato poi diverse polemiche (appunto non sopite) anche perché a molti risultò inutile e particolarmente odiosa per la casualità del bersaglio (tuttavia non così innocente come si continua ad affermare); e l’esperienza recentissima del terrorismo non provoca certo simpatia. Inoltre l’attentato non ottenne sicuramente l’effetto che si proponeva, e cioè la sollevazione della popolazione romana, e un appoggio allo sbarco americano ad Anzio, che invece si rivelò fallimentare. Lo stesso Calamandrei, uno degli artefici dell’attentato, finì per confessare: “Non si vede l’importanza politica internazionale, che può valere il sacrificio”.

In realtà l’agguato, anche per il coraggio e l’abilità tattica mostrati dai Gap, divenne oggetto di ammirazione per tutti i resistenti europei, accrebbe il clima di terrore e di incertezza dei tedeschi e dei repubblichini, e divenne importante quando si trattò di ammettere il valore degli italiani come combattenti (con un risultato politico che venne fatto abilmente giocare alla fine della guerra, quando si decisero le responsabilità degli sconfitti).

Rimangono le zone d’ombra collegate alle modalità dell’attentato, e alle orribili conseguenze che provocò. Lo stragismo era però una tecnica ampiamente collaudata dai nazisti come si può constatare dai numerosi eccidi compiuti in Italia, e dagli orribili massacri compiuti nella Russia conquistata (molto simili ad un genocidio) e le rappresaglie messe in atto ai danni degli abitanti di Praga e di Varsavia, come punizione degli attentati dei partigiani. Dunque, non bisogna dimenticare che, dal punto di vista del sangue versato, furono proprio gli italiani (e in particolare gli antifascisti) a pagare il tributo più alto, all’interno di una pratica di guerra in cui la rappresaglia era strumento comune di intimidazione e di terrore dei nazisti, che consideravano le vittime “non uomini”.

Calvino fa la conchiglia

In uno dei suoi tanti interventi su come si deve scrivere, Calvino raccomandava la pagina chiara, senza arzigogoli, e soprattutto senza un linguaggio astratto. Si trattava di un consiglio del tutto coerente al suo stile che Domenico Scarpa, autore di un monumentale studio complessivo sullo scrittore (Calvino fa la conchiglia, Hoepli editore, 763 pagine, note esplicative comprese) non sempre rispetta. Infatti non sono poche le pagine in cui l’autore sembra perdersi in un suo percorso quasi iniziatico, che lo porta lontano dal testo preso in esame, e in cui il commento del romanzo e del racconto svela allegorie e riferimenti culturali che non è sempre facile seguire e perciò condividere. In realtà il libro di Scarpa segue un sentiero molto personale, non strettamente modellato sulla tradizionale alternanza di biografia e commento critico delle opere, ma si rivela al contrario aperto a divagazioni, approfondimenti di dati in apparenza secondari, vie di fuga (peraltro l’autore si preoccupa di esplicitare nel testo i vari collegamenti). La ragione di una simile scelta sta probabilmente nel fatto che Scarpa (il quale dichiara con forza che Calvino è stato comunque uno degli scrittori più dotati del suo secolo) vuole esplorare non solo la produzione narrativa, ma seguire l’intero arco della sua ricerca letteraria, personale e filosofica, che tocca davvero tutti i gangli più vitali della cultura del Novecento.

Il primo punto di forza del volume (che giustifica dunque pienamente una lettura attenta, anche se lasciata, prudentemente, un po’ a sedimentare capitolo dopo capitolo) riguarda proprio il fatto che attraverso la figura dello scrittore italiano (ma nato – e sembra un presagio del suo continuo viaggiare e vagare – a Cuba), Scarpa ricostruisce la storia della letteratura e del pensiero del secolo scorso (basterebbe l’indice dei nomi a dimostrarlo), non solo negli autori italiani, ma anche inglesi, francesi, sudamericani; e senza trascurare scienziati, antropologi, fisici, paleontologi: Calvino fa la conchiglia inizia con un ipotetico incontro dello scrittore con Pirandello, a Sanremo e prosegue elencando le diverse personalità culturali che egli ha incrociato, sulla pagina o di persona, e che hanno inciso sulla sua personalità e sulla sua ricerca artistica.

Il tratto fondante del volume è quello espresso nel titolo (con l’aggiunta di un sottotitolo a sua volta rivelatore: La costruzione di uno scrittore): Calvino non si è mai riconosciuto in un ritratto o in una definizione critica o in un punto di approdo soddisfacenti, ma ha costantemente, per tutta la sua carriera artistica, costruito sé stesso, prendendo diverse forme (da cui la metafora della conchiglia), imboccando diverse direzioni, senza mai ritenersi pago, ma considerando ogni punto di arrivo come la base per un’ulteriore ricerca (ne derivano le belle pagine del libro riguardanti le “potenzialità” dell’universo che riescono ad illuminare anche i momenti più decadenti e bui).

Al centro della sua carriera di scrittore ed intellettuale sta l’abbandono di una prima fase, caratterizzata dalla scelta comunista – einaudiana, in cui Calvino attraversa una fase narrativa segnata dallo spirito avventuroso e fiabesco, di una limpidezza classica. In un periodo successivo si inoltra in un percorso decisamente più ostico, in cui i contenuti sono difficili, spesso sfuggenti o di ardua decifrazione, resi complessi da riferimenti alla fisica e alla scienza. Il mutamento (che si può far risalire alla pubblicazione delle Cosmicomiche) ha creato una sorta di shock nei critici, specialmente negli ambienti della Sinistra, anche perché ha coinciso con l’abbandono del partito comunista (non senza il corredo di scritti ironico – critici sull’ex schieramento) a vantaggio di un riformismo politico più moderato, ma più concreto rispetto alle vecchie parole d’ordine ormai fossilizzate. Si tratta, ancora una volta, del rifiuto di Calvino di farsi incapsulare in un impegno anche militante che ormai gli appare superato. A maggior ragione, lo scrittore si è esposto alle accuse di formalismo quando ha aderito all’Oulipo, un cenacolo di scrittori e intellettuali che si misuravano con argomenti stravaganti ed astratti, ma formalmente perfetti, e sottoposti a regole e simmetrie rigorosissime, il tutto in funzione di una costruzione letterarie perfetta ed esattamente squadrata, tale da costringere la fantasia entro i limiti dell’equilibrio e della misura (caratteristica che emerge anche in certe sue singolari raccolte di novelle, come Il castello dei destini incrociati, modellato sulla simmetria e sulla corrispondenza delle storie). Ad onta delle polemiche, Scarpa si rifiuta di ammettere fratture nel percorso artistico e intellettuale di Calvino, appunto sulla base del fatto che egli ricerchi e costruisca continuamente sé stesso, sulla base di una relazione continua con il diverso , l'”altro”.

Al tema principale delle trasformazioni calviniane, si intrecciano gli altri spunti tematici ricorrenti nella sua produzione narrativa e nei suoi interventi di letteratura, politica e costume: certi momenti cupi, ad esempio, il fondo oscuro dell’animo di un autore così limpido sulla pagina, così leggero e splendidamente razionale in un romanzo impregnato di ottimismo illuminista come Il barone rampante. Emergono così la paura per una realtà caotica e informe, che si può vedere senza smarrirsi solo dall’alto e da lontano perché, da vicino, è “brutta”; l’angoscia di fronte all’irrazionale che mina la sicurezza e la luce della speranza, angoscia che prende la forma repulsiva dei ragni, delle formiche sopra un cadavere, dei granchi nella stiva di una nave, e trova la sua espressione estrema nel girone infernale del Cottolengo (ne La giornata di uno scrutatore), dove sono rinchiusi uomini – bestie che smentiscono ogni illusione antropocentrica. La pagina tersa e pulita, l’obbedienza alle regole fisse di una retorica formale rigida sono la risorsa di uno scrittore che non vuole cedere alla brutalità, alla “non ragione”, e che cerca comunque un punto di arresto al franamento delle cose. L’ancora di salvezza è definita dalla scrittura e dall’uso di una intelligenza critica che si dimostra l’unica in grado di penetrare la complessità del mondo.

Il profilo di Calvino scrittore e intellettuale si staglia vivido e ben riconoscibile nell’immagine disegnata da Scarpa nella parte finale del libro: un equilibrista su un filo teso sopra lo “sbaranco” (cioè l’abisso), che tuttavia continua a guardare aventi ed oltre, alla ricerca della consistency, “la coerenza, la compattezza, l’armonia e la connessione logica tra le parti di un tutto” (p. 622).

Fabbricante di lacrime

Uno dei miei spiriti guida è, indegnamente, Umberto Eco, un intellettuale a tutto tondo che, a dirla in maniera un po’ rozza, ha ritenuto degno di attenzione e di studio i più diversi prodotti dell’ingegno umano, soprattutto letterari ed artistici, dall’estetica medievale ai fumetti porno. Probabilmente a causa della sua influenza mi sono ridotto a vedere il film di Alessandro Genovesi, Fabbricante di lacrime, (tratto, non so quanto fedelmente, dal romanzo di Erin Doom, scrittrice italiana nonostante le apparenze), e soprattutto a parlarne nel mio blog.

Nel complesso, devo confessare, il film non mi ha per nulla deluso, almeno sulla base delle mie attese, perché si tratta di un prodotto dignitoso, dal punto di vista tecnico, accattivante e ruffiano quanto basta, dotato di un suo ritmo che riesce a tener desta l’attenzione. La trama si basa su personaggi psicologicamente monocordi, e tuttavia gradevoli, perché in opere di questo tipo, dal target molto definito, il cliché corrisponde ad una risorsa e non ad una caduta o ad una mancanza di fantasia.

Due giovani, maschio e femmina(lei, Nica, una Caterina Ferioli carinissima; lui, Rigel, un Biondo piuttosto inespressivo), che hanno in comune solitudine e disagio adolescenziale, sono ospitati in un orfanotrofio che sembra uscito da un film dell’orrore, vengono adottati da due genitori dalla dolcezza e simpatia irresistibili, frequentano la stessa scuola, con l’immancabile contorno di compagni – tipo, dal bulletto all’amica simpatica, a quella introversa (e segretamente gay).

L’ostilità manifesta fra i due ragazzi (Nica, dolce e paziente; Rigel scorbutico e solitario, scortese fino alla repulsione tanto da meritarsi l’appellativo, non lusinghiero, di “fabbricante di lacrime”) si trasforma col trascorrere del tempo in quello che era fin dal principio (e tutti gli spettatori lo sospettavano) un amore aspro e contrastato, soprattutto a causa delle ripulse di lui, che sotto la patina rozza nasconde una sensibilità acuta e un’indole generosa. L’happy end è rafforzato dalla inquadratura finale, in cui i due rivelano di essersi costruita una famiglia, con tanto di prole, dopo aver superato il tentato omicidio di un rivale falsamente comprensivo (in realtà un vilain disposto allo stupro) e un processo dall’esito incerto, in cui però, alla fine, verrà sconfitta la strega della favola, e cioè la direttrice dell’orfanotrofio che briga per riprendersi Rigel.

Come si può constatare, la trama non si fa mancare niente, e la professionalità di Genovesi (una vecchia volpe della nuova commedia italiana di intrattenimento) ha il merito di sostenere un intreccio che risulta un complesso ben ordito di spunti letterari della più diversa provenienza, ma soprattutto da quei romanzi (spesso veri capolavori) che un tempo erano destinati alle ragazze (destinatario esplicito anche del film): il cupo orfanotrofio prende spunto da quello descritto in Jane Eyre di Charlotte Bronte; il personaggio di Rigel è un Heathcliff dimidiato (anche per la dimenticabile prova attoriale di Biondo) di Emily Bronte, ; i conflitti – e gli amori – fra coetanei e compagni di classe possono a loro volta vantare una lunga tradizione che culmina nei serial di Netflix (che non a caso distribuisce la pellicola nella sua piattaforma).

Come spesso accade per i film di ampio successo, che vengono rifiutati d’emblée per un irritante forma di snobismo, Fabbricante di lacrime è un un film gradevole ed onesto, che mantiene tutte le sue promesse (ampiamente prevedibili), senza enfasi e senza pretese. La perplessità riguarda semmai la riproposta del luogo comune (diffuso peraltro nelle fonti citate e ancora in corso) che alla ragazza (e in genere alle donne) spetti il compito della cura nei confronti del disagio e della sofferenza del compagno, subendo magari un trattamento insegno pur di “guarirlo”. Senza che in simile comportamento debba essere condannato a priori (nel film è compensato dalla gentilezza nascosta e dallo spirito di sacrificio del ragazzo), bisogna ammettere che esso può condurre verso una china pericolosa, perché induce giovani donne a sopportare azioni indegne e magari le violenze del partner; giustifica insomma, e magari valorizza, una distorsione nei rapporti fra i generi di cui la cronaca recente ha offerto pessimi esempi.

Un mondo a parte

Ho sempre provato una grande simpatia per Riccardo Milani, regista (e spesso sceneggiatore) di film eleganti e soffusi di un umorismo lieve ed accattivante. Nell’ambito della commedia italiana, è l’erede ideale di quelle opere raffinate e gradevoli (non senza, talvolta, uno spunto drammatico, appena suggerito) che hanno caratterizzato una zona precisa del cinema italiano degli anni Trenta e Quaranta (del tipo de Gli uomini che mascalzoni di Camerini e Quattro passi tra le nuvole di Blasetti); oppure i film dell’esordio registico di De Sica, prima della conversione al neorealismo (De Sica, com’è noto, era stato attore di quelle stesse opere: si pensi a Maddalena, zero in condotta in cui fu regista e interprete).

In questo piacevolissimo film, Un mondo a parte, Milani accompagna le vicende di un maestro elementare, Michele Cortese, interpretato da Antonio Albanese, che chiede (con una decisione che a tutti appare suicida) di abbandonare il posto di insegnante in una scuola della periferia romana (dove si sente inutile e continuamente ricattato dai parenti dei suoi giovanissimi allievi, con minacce di violenza) per trascorrere un anno di insegnamento in un paesino sperduto sui monti dell’Abruzzo: un luogo minacciato di sparizione, perché tutti, e specialmente i giovani, se ne vanno. La scuola elementare è l’unico legame che consente alla comunità di sentirsi unita, e attorno a cui gravita con le sue innumerevoli esigenze.

Il protagonista, un inguaribile fanatico dell’ecologia che avrà presto un’amara smentita nella sua mitizzazione dei paesi isolati in mezzo ai boschi e alla natura selvaggia, punterà proprio, assieme ad un’affascinante e assai spiccia collega (Virginia Raffaele, al colmo della simpatia), a mantenere aperta la scuola, ricorrendo a molti espedienti e superando le insidie del fellonissimo sindaco di un paese rivale, che sogna appunto l’abbandono dei piccoli villaggi della zona per favorire l’ennesima speculazione edilizia. La trama non è originalissima, come è del resto tipico del genere commedia; il film, tuttavia, vive grazie ad una sceneggiatura che scorre veloce, ricca di personaggi e di invenzioni. Si basa anche sulla recitazione degli attori principali, che riproducono con collaudata abilità le loro maschere abituale, adattate peraltro al contesto della trama: Albanese, idealista , impacciato ma irremovibile nonostante gli incidenti; Virginia Raffaele, ragazza disinvolta e tenace, con un pizzico di scetticismo che peraltro non vale a scoraggiarla. Una scelta felicissima è poi quella di aver scelto come attori di contorno gli abitanti dei luoghi in cui si svolge la vicenda, secondo una tecnica che richiama il neorealismo.

Il riferimento a questa gloriosa stagione del cinema italiano non è una semplice invenzione della messinscena, bensì rimanda ad una volontà di conoscere e far conoscere una realtà di disagio che troppo spesso è liquidata a forza di slogan o a commenti da talk show. Da questo punto di vista, pur senza tradire mai la sua vocazione di film di intrattenimento, Un mondo a parte sa graffiare ed incidere, ponendo davanti agli spettatori la realtà dell’abbandono di interi pezzi d’Italia a causa del calo delle nascite e, quindi, della necessità di migranti attivi e desiderosi di migliorare la loro sorte: essi costituiscono quindi non solo un problema, ma una ricchezza, una risorsa (e ne fa fede un’intera comunità di nordafricani che hanno fatto rivivere intere zone, altrimenti abbandonate, della valle del Fucino). Altrove, Milani incide a sangue, come nella sequenza desolante degli insegnanti, il nuovo proletariato, che si presentano in fila per ricevere un incarico nei paesi più disastrati, esattamente come i braccianti di un tempo, arruolati in piazza dai caporali. Del resto, è precisamente questo lo spirito che sorregge la cruda canzone di Ivan Graziani (gloria abruzzese) Taglia la testa al gallo, che scorre durante i titoli di coda: un’esortazione poco meno che rivoluzionaria.

In definitiva, proprio gli accenni ad una realtà scomoda, della quale gli spettatori sono chiamati ad avere almeno coscienza, rendono i film di Milani un prodotto che li innalza al di sopra del momentaneo piacere della risata e della situazione paradossale, per trasformarlo in un invito alla consapevolezza e all’impegno. Da questa prospettiva, si può osservare una distanza abissale, anche se possono essere inclusi sotto la stessa etichetta, rispetto ai cinepanettoni, o ai film di puro intrattenimenti di Steno ed epigoni, che esaltano un individualismo, una furbizia e una cialtroneria che rimandano alle parole d’ordine dell’epoca di Berlusconi e della Lega (come ha argomentato in modo convincente De Luna nel suo Cinema Italia).

Nella sequenza finale, che prelude all’atteso lieto fine, il protagonista (che giù aveva incontrato lo spirito della natura sotto forma di un cervo mite e smarrito) passa in macchina accanto ad una montagna che rifiorisce, a muratori che costruiscono nuovi insediamenti per ripopolare quei luoghi, ad un aquila che volteggia liberamente in cielo: è la rappresentazione di un’utopia. Ma l’utopia, come ci hanno insegnato gli intellettuali francesi del Settecento avversi all’ancien régime, corrisponde al desiderio di un futuro nuovo e diverso; o, almeno, il segno di un disagio che si può superare.

Priscilla

La macchina da presa si avvicina lentamente fino ad inquadrare in primo piano prima la nuca e poi il profilo di Priscilla, che volge gradualmente il viso verso gli spettatori. Il messaggio è chiaro e risponde da subito a quanti (prevedibilmente) avrebbero lamentato il fatto che di Elvis si parlerà poco, il minimo indispensabile, e tanto meno del suo successo e del suo carisma davanti ai fans (il fascino di Presley, che ha segnato un’epoca, è rappresentato una volta per tutte nella sequenza, altamente simbolica, del cantante isolato sul palco, di spalle, avvolto interamente come un’aureola, dalle luci della ribalta, fra gli osanna degli ammiratori). Il film però non riguarda lui, ma appunto Priscilla, la donna che ha sposato e di cui nel titolo non viene riportato neppure il cognome glorioso, proprio come se fosse una persona comune.

Sofia Coppola tenta infatti, riuscendoci perfettamente, un’analisi dell’interiorità, drammatica quanto sottaciuta, di una giovane donna coinvolta in una macchina che affascina e stritola: una coerenza mirabile, nel percorso di questa regista, che già aveva portato alla luce il disagio tragico e narcisistico delle Vergini suicide e lo sbandamento esistenziale di Maria Antonietta, regina di Francia, stritolata dal ruolo e dall’incapacità di uscirne, proprio come una ragazza dei nostri tempi, una Priscilla appunto, che non trova la forza di rompere le sbarre della sua gabbia dorata (ma la Coppola non si limita a cogliere le donne solo nel loro ruolo di vittime; ne mostra anche la terribilità, l’ipocrisia e una volontà di annientamento – per non essere schiacciate a loro volta? – pienamente all’opera nel cupissimo L’inganno).

Per Priscilla la regista fa uso di una sceneggiatura (scritta da lei stessa) e di uno stile di regia tutto in levare, smorzando il dramma, e trattenendo il melodramma (e da qui l’insipiente accusa di aver girato un film noioso) perché, da un lato, non si vuole infierire su un marito del tutto inadeguato, ma che forse non si è cessato di amare ( lo script deriva da un libro autobiografico della stessa Priscilla), dall’altro Coppola preferisce mostrare visivamente, nella sua lenta maturazione e senza passaggi forzati o didascalici, la presa di coscienza di una donna che si accorge a poco a poco di essere prigioniera, un uccello in gabbia.

La regista non dice, mostra: il moltiplicarsi degli oggetti da cui la giovane fidanzata (poi moglie) è circondata tanto da non potersene liberare; l’affetto che si spegne, con scatti improvvisi di aggressività, tutte le volte che “l’ospite” deroga dalle regole rigidissime della casa (una Graceland ben fuori del mito); l’annientamento della sua volontà, tutte le volte che Priscilla deve soccombere alle pretese del marito; i momenti di isolamento della ragazza, sola al centro di inquadrature completamente vuote; persino la differenza nell’altezza fra i due coniugi con Elvis (Jacob Elordi) che svetta al di sopra della minuta ma tutt’altro che passiva Priscilla (una meritatamente premiata Cailee Spaeny). Il congedo e l’allontanamento da Graceland (ancora in solitudine, ma è la solitudine di chi affronta deliberatamente il proprio destino) sigla ancora una volta, senza drammi, una scelta a favore della vita e della libertà, e non dell’autodistruzione che finisce per travolgere le fragili adolescenti della Coppola.

La comprensione, la singolare mancanza di acredine nei confronti dell’ex marito derivano, oltra che da un residuo di affetto, dall’empatia (anche questa sottotraccia, non dichiarata) per la sua debolezza caratteriale e per la fragilità emotiva di un uomo perennemente circondato da una banda di boys come in West side story: un indizio, forse, di omosessualità latente), e pesantemente eterodiretto dai maschi che si impongono su di lui fino ad annullarne la volontà (il manager, e il padre, severo e sgradevole nei confronti di una fidanzata e moglie troppo giovane, che non sa stare alle regole). Priscilla (e la Coppola con lei) comprende benissimo che Elvis ha tentato di rinchiudere lei nello stesso meccanismo di oppressione e annullamento che lui stesso ha subito, fino a ridursi (lui che non è riuscito a liberarsi) in un uomo penosamente inquieto, frustrato nella sua ricerca di spiritualità e che finisce per diventare, alla fine, un pachiderma enorme d abulico, gonfio di grasso e di infelicità.

Gli Effinger

Arrivare alla fine, e cioè a pagina 888 (utilissima postfazione esclusa), significare giungere sulla vetta della montagna, dopo un viaggio lungo, ma non arduo, non esasperante. Gli Effinger (Einaudi editore), romanzo della scrittrice e giornalista tedesca Gabriele Tergit (alias Elise Hirschmann, 1894 – 1982) si rivela la narrazione fluviale della storia di due famiglie ebree tedesche, imparentate fra loro, in un lasso di tempo che va dalla cancelleria di Bismarck fino all’avvento del nazismo e allo sterminio di molti dei personaggi nei campi di concentramento. Il capitolo finale mostra una Berlino devastata, con qualche bagliore di speranza per il futuro, ma con la desolazione delle famiglie disperse e delle loro dimore lasciate nell’abbandono (una nemesi storica, sembra suggerire l’autrice, una colpa dei tedeschi a cui le vittime, in specie proprio gli ebrei, non hanno saputo far fronte in modo efficace).

Il romanzo trae modello e ispirazione da un capolavoro di Thomas Mann, I Buddenbrook, a sua volta una saga famigliare, da cui si ricavano alcuni spunti e il colore per disegnare certi personaggi. Anche nel caso de Gli Effinger, il lettore si trova alle prese con un bildungroman, un romanzo di formazione, che lo guida dalla giovinezza all’età adulta di alcuni protagonisti, mentre altri si bloccano in una immaturità emotiva stroncata dalla morte, o anche dall’incapacità di andare oltre, di varcare la soglia.

Il romanzo di formazione è un tipico prodotto della cultura tedesca (basterebbe pensare a Goethe), anche se non si debbono trascurare esempi consimili in altre nazioni, più o meno nello stesso periodo: I Thibaud di Martin Roger du Gard in Francia e soprattutto La saga dei Forsyte di Galsworty in Inghilterra, eredi a loro volta della ciclopica impresa del ciclo di romanzi di Emile Zola, incentrati sulle intricatissime vicende della famiglia dei Rougon – Macquart.

Con una scrittura limpida ed accattivante, con il ritmo calibrato dei dialoghi, e l’incisività con la quale ricostruisce, con pochi tratti, gli interni delle dimore borghesi e gli esterni (la fabbrica, le piazze, i giardini, i locali notturni), Tergit documenta il fluire del tempo in una sinfonia maestosa, che riesce ad illustrare i cambiamenti dell’economia, la mentalità e le reazioni di uomini e donne che si vedono mutare irrimediabilmente, accanto, e dentro, la storia. Successi e crolli sono affrontati con imperturbabile compostezza. Gli avvenimenti principali (e cioè la prima guerra mondiale, la crisi economica della Repubblica di Weimar, la necessità di adattare ai tempi e alle esigenze moderne il prodotto delle fabbriche) vengono sempre colti dall’interno della cerchia industriale e borghese dei protagonisti, foltissima e sempre unita, nonostante gli inevitabili contrasti personali. Solo nella parte conclusiva, in cui l’ipocrisia dei nazisti che si insinuano lentamente come un cancro, con l’intento di escludere lentamente, e brutalmente, gli ebrei dai loro possedimenti e dal loro stesso diritto alla cittadinanza e alla vita, il ritmo assume cadenze più cupe, con la successione sempre più odiosa delle prepotenze, a cui gli ebrei oppongono troppo spesso ingenuità e impotenza. Forse qui si appunta una critica della Tergit ai suoi correligionari, che non hanno saputo interpretare i tempi ed avvertire i pericoli di un uomo crudele e fanatico come Hitler, che troppo spesso è stato sottovalutato alla stregua di un grottesco parvenu.

Alla fine la scrittrice dà atto alla lungimiranza degli ebrei che hanno abbandonato la Germania in tempo e hanno trovato una nuova esistenza nello stato di Israele. Questa scelta peraltro non produce né ammirazione né una particolare simpatia nella scrittrice, semmai una velata critica per quel tanto di costrittivo e illiberale coglie nel nuovo stato e soprattutto per quella sorta di tradimento che i nuovi coloni hanno operato ai danni della loro cultura, tedesca, di appartenenza.

Il filo conduttore, almeno emotivo, che lega il susseguirsi delle vicende e la miriade dei personaggi (si impone infatti un albero genealogico all’inizio, da consultarsi continuamente) consiste nella dimostrazione di come gli ebrei siano tedeschi fino in fondo, e che rechino in sé i frutti migliori della cultura liberale e del riformismo socialista (oltre che un’etica del lavoro che assume una valenza eroica): valori tutti che il nazismo ha sradicato, ma a cui anche gli ebrei non sono riusciti a rimanere fedeli fino alla fine (e si veda il drammatico confronto tra il saggio Waldemar – un modello di intelligenza e di tolleranza – e la nipote che progetta di partire per la Palestina, dove intende ricostruirsi una nuova vita).

Tergit si rende conto, pur senza esasperare i toni di una scrittura di mirabile medietas, che gli ebrei tedeschi, nella loro religione e cultura, sono scomparsi nei meandri della storia: da qui il rimpianto di quel mondo elegante ed industrioso, il fascino dei loro rituali, la perfezione dell’architettura e degli arredi delle loro case. Sono pagine ricche di luce e di partecipazione, che non risultano mai inerti e superflue.

Anatomia di una caduta

Bergman definisce “film da camera” le sue opere girate tutte in interni: scelta che gli dava agio di far affiorare, e portare al calor bianco, le passioni, gli odi repressi, i rovelli esistenziali, l’angosciosa ricerca dei personaggi principali, l’incomunicabilità. Il regista svedese si rivela un’indicazione quanto mai opportuna per comprendere questo bellissimo film di Justine Triet (sceneggiato con Arthur Harari, suo compagno nella vita), non solo per l’uso della tecnica cinematografica, molto prossima a quella riscontrabile in Luci d’inverno e ne Il silenzio: primi e primissimi piani, ambienti chiusi e asettici (specialmente l’aula del tribunale, un classico “non luogo”), grande investimento sull’interpretazione, su una sceneggiatura ed un montaggio così perfetti, da non lasciare momenti di stanchezza, e da conservare un ritmo sostenuto e coinvolgente, nonostante la notevole durata del film.

Visto esternamente Anatomia di una caduta sembra un legal – thriller, e come tale è stato spacciato dagli strilli pubblicitari. Le ragioni ci sono: l’opera si apre con una caduta mortale, un cadavere disteso a terra nella neve, un processo lungo ed estenuante, con drammatici battibecchi fra la moglie del morto, immediatamente sospettata di omicidio, e il pubblico ministero che indaga sul passato della vittima, porta alla luce i contrasti nella coppia, e cerca di mettere alle strette Sandra, la moglie, attribuendole motivazioni torbide ed egoistiche che l’avrebbero spinta ad un delitto perpetrato a freddo (ad accentuare la sua estraneità, rispetto al contesto sociale in cui si trova ad essere obtorto collo, l’accusata, di origine tedesca, si esprime con difficoltà in francese e preferisce testimoniare in inglese).

Tuttavia, nonostante le apparenze, il dramma non sta nel processo, o almeno non interamente, e a soccorrere lo spettatore viene ancora una volta uno dei capolavori di Bergman, Scene di un matrimonio (in origine una serie televisiva) incentrato su una spietata analisi del matrimonio, della sua fragilità e della miriade di sentimenti ostili (gelosia, invidia, stanchezza, noia) che lo insidiano fino a sfaldarlo: il legame matrimoniale, in definitiva, atrofizza i legami e li spezza, non li rende più stabili).

Così avviene dell’infelice coppia di Anatomia di una caduta, Sandra e Samuel: un matrimonio compromesso dal successo della moglie e dal fallimento (con conseguente frustrazione) del marito, che le rinfaccia di averlo soffocato e di avergli sottratto spazio creativo e vitale. Sandra lo accusa invece di aver provocato, in un momento di disattenzione, la cecità del figlio David, legatissimo ad entrambi. Da un simile complesso di rancori e ostilità irrisolte derivano feroci discussioni, accuse e sarcasmi, battute sprezzanti ed ultimatum che avvelenano la vita di coppia fino alle ripicche più puerili, segno appunto di una involuzione infantile: Samuel alza al massimo il volume della musica per impedire alla moglie l’intervista con una giornalista – fan.

La convivenza è incancrenita ad un punto tale, che solo l’eliminazione del componente più fragile e meno equilibrato (anche in termini di autocontrollo) può restituire una tranquillità che sembrava smarrita per sempre. Le sequenze finali nella quale la protagonista riceve le testimonianze di affetto dell’amico avvocato, del figlio e persino del cane, all’interno di una serenità domestica finalmente ritrovata, nasconde in realtà una verità molto amara: l’equilibrio ritrovato è la conseguenza di una espulsione, di una eliminazione violenta, che potrebbe anche essere la conseguenza di un gesto omicida.

All’analisi dura della vita di coppia si intreccia l’altro tema del film, sviluppato con tanta intensità e con tanta cura da farlo apparire (per me in modo ingannevole) l’elemento portante. La sceneggiatura insiste nell’illustrare tutti i passaggi di un processo interminabile; tuttavia il parere contrastante dei diversi esperti presentati dall’uno o dall’altra parte, e le arringhe degli avvocati non approdano mai ad una soluzione davvero convincente (sul piano della “verità” oggettiva, non su quella della “verità” processuale, che non coincide necessariamente con la prima e neppure con la giustizia).

La soluzione, provvisoria e non priva di ambiguità, viene dalla testimonianza del figlio cieco, offerta spontaneamente, dopo che la donna che lo assiste, lo pone di fronte alla possibilità di uscire dall’impasse processuale, senza peraltro alcuna garanzia di giungere alla verità: se quest’ultima non è conoscibile, non rimane che operare una scelta fra le due alternative, e credere fino in fondo a quella che appare più autentica. Non siamo lontanissimi dal celebre “salto nel buio” di kierkegaardiana memoria, anche se qui la posta in gioco non è la teologia ma la giustizia.

Ci sono infatti molte ragioni per credere che il ragazzo non dica la verità, quando riferisce le parole del padre, sufficienti a convincere i giudici che egli avesse davvero l’intenzione di suicidarsi, Infatti non è verosimilmente casuale che, nel flash – back che rievoca il colloquio fra i due, il padre non parli; l’unica voce che si sente, in sovraimpressione, è appunto quella del figlio che ha evidentemente deciso quale deve essere la verità. In questo modo l’armonia si ricompone a caro prezzo; ai superstiti resta l’amara consolazione che, se la giustizia non è conoscibile, forse è possibile trovarne un surrogato che consente di continuare a vivere.

Un altro ferragosto

Paolo Virzì è tre i pochi registi italiani, forse l’unico, che sa confezionare una commedia drammatica corale, fitta di personaggi e macchiette, con il ritmo scatenato di una sarabanda che richiama i capolavori satirici di un maestro come Pietro Germi ( penso in particolare a Sedotta e abbandonata) e di altri suoi epigoni. La prima parte del suo film appena uscito, Un altro ferragosto, seguito di Ferie d’agosto girato quasi trent’anni prima, si presenta come un coacervo di scene, scenette e sketch, con personaggi continuamente agitati, che si parlano addosso senza tregua. L’approdo che si ripete alla spicciolata di sempre nuovi arrivi segna il colpo di grancassa che scandisce il ritmo e permette il rilancio di un’azione sempre più convulsa, per attenuarsi poi, con un tempo più lento e dolente, nella seconda parte, e nel finale, in cui emerge con forza l’anima più amara e meditativa del film. Senza, peraltro, tradire lo spirito della commedia all’italiana, che è nel dna del regista toscano: pure le opere di quella memorabile stagione del cinema italiano, che si proponeva anche di offrire un ritratto impietoso delle arretratezze nazionali, si basavano su di un susseguirsi di azioni paradossali e grottesche con scioglimenti drammatici e fallimenti più o meno consapevoli (e basterebbe pensare solo a Il sorpasso o a Una vita difficile di Dino Risi).

Virzì gioca sullo stesso tavolo dei suoi grandi modelli, catapultando ancora una volta il suo gruppo di vacanzieri superficiali e cialtroni da una lato, e di intellettuali astratti e seriosi dall’altro, nella stessa isola di Ventotene che aveva fatto da sfondo al film precedente. L’ambizione non è mutata; ed è quella di fornire un quadro riconoscibile, sia pure deformato da un’ottica grottesca particolarmente feroce, della nuova Italia: al conflitto fra berlusconiani edonisti e zotici, che si opponevano alla cerchia ristretta e snob dei sinistrorsi duri e puri, si sostituisce quello fra le due anime, ancora contrapposte, dei gaudenti superficiali ed individualisti, fanatici dei reality e della dittatura degli influencer, e, per contro, dei libertari laici, ormai privi di ancoraggio, anticonvenzionali quasi per moda, ma segnati a loro volta dallo scetticismo e dalla crisi delle relazioni personali. Il loro patriarca, Sandro, ormai morente (un Silvio Orlando come sempre all’altezza del ruolo) non sa neppure percepire la realtà che lo circonda, preso com’è da un passato eroico e mitizzato, che ha segnato la sua militanza giovanile in un giornale di sinistra, ma lo ha anche imprigionato in un fanatismo astratto. Non per caso il passato che lui ricorda e in cui si immedesima – quello degli esuli antifascisti a Ventotene di cui vuole perpetrare il ricordo attraverso la ristrutturazione del pollaio che avevano costruito – è presentato in un rigoroso bianco e nero, in contrapposizione alla marea multicolore e rozza della volgarità che lo circonda, e che si illude di poter arrestare con parole pacate e le sue argomentazioni d’altri tempi.

Il confronto fra il vecchio film del 1996 e il nuovo riaffiora continuamente, richiamato non solo dal titolo, ma anche dagli inserti della prima opera in quella più recente e dalle foto degli attori (alcuni morti nel frattempo) che si scorgono sui mobili dei sopravvissuti e nei loro ricordi. L’occhio di Virzì però si è nel frattempo ancor più incupito, il grottesco dei visi e la concitazione sbracata delle azioni e delle parole cancellano anche quel minimo di umanità, quella sorta di infelicità inconsapevole ed inespressa, che pure avevano offerto una profondità umana al clan dei rozzi Mazzalupi. La nuova società italiana appare ancor più sopraffatta dalla cialtroneria, dalla superficialità, da un retroterra culturale ed emotivo ai limiti dell’infantilismo. Gli ignoranti orgogliosi di sé di una volta sono rimasti tali e quali; vi si aggiungono gli imbonitori di professione, gli influencer e i loro creatori, arroganti e umanamente miserabili, i nuovi falliti, quelli che si affannano a rimanere a galla, come il personaggio disegnato da Christian De Sica, che ripropone la sua maschera di gentiluomo vanesio e scroccone, sempre sull’orlo del baratro (e davvero ricorda una delle tante macchiette di suo padre).

Su questa umanità dispersa, ma spesso inconsapevole, spira una desolazione da fine del mondo, un’ansia distruttiva e apocalittica molto simile a quella che Virzì aveva espresso nel precedente Siccità, e che qui viene riassunta nel monologo di Emanuela Fanelli, interprete ricca di sfaccettature, che sa passare da un’antipatia scostante al pathos drammatico della consapevolezza di sé e del suo vuoto. Quello che il regista propone alla riflessione degli spettatori appare infatti un mondo in disfacimento, soprattutto quello irridente e festaiolo che riduce Lipari, luogo di Resistenza, a nuovo eden consumistico. Ma neppure si salvano gli oppositori, persi negli stessi slogan, nelle stesse debolezze, in un’astrazione che non tiene conto della realtà.

Tuttavia, come sempre nel suo cinema, Virzì non vuole (o non sa) abbandonarsi completamente alla disperazione. Se si rifiuta di schierarsi adottando un partito specifico (e del resto Meloni e Schlein sono comparse fugaci dentro una marea di chiacchiere e di luoghi comuni), arriva a ribadire che i valori che possono costituire un antidoto (illusorio?) al trionfo dei nuovi barbari sono pur sempre quelli della solidarietà e della cura, della coerenza con sé stessi, della tolleranza; valori che appaiono tutti legati alla Sinistra, per quanto malmessa.

Alla fine spetta ad un Sandro morente, e forse consapevole dei suoi errori (l’essersi negato all’azione, l’essersi chiuso in una torre d’avorio senza riuscire a vedere gli altri) dichiarare il suo orgoglio per i figli e la moglie, a lasciare la sua lotta in eredità al nipote affettuosissimo, a sentirsi attorniato da una solidarietà che non manca di affondi critici (da qui certo tono scherzoso dei figli), ma è autentica e partecipe. Dall’altra parte, le pecche dei Mazzalupi sembrano trasmettersi dal padre ai figli in termini di edonismo stolido e arrogante, di tradimenti e di inconsapevolezza sentimentale, in una infelicità sotterranea e diffusa che culmina nella rassegnazione della figlia e nel suicidio della pur tenera Luciana Mazzalupi (Paolo Tiziana Cruciani).