Uno dei miei spiriti guida è, indegnamente, Umberto Eco, un intellettuale a tutto tondo che, a dirla in maniera un po’ rozza, ha ritenuto degno di attenzione e di studio i più diversi prodotti dell’ingegno umano, soprattutto letterari ed artistici, dall’estetica medievale ai fumetti porno. Probabilmente a causa della sua influenza mi sono ridotto a vedere il film di Alessandro Genovesi, Fabbricante di lacrime, (tratto, non so quanto fedelmente, dal romanzo di Erin Doom, scrittrice italiana nonostante le apparenze), e soprattutto a parlarne nel mio blog.
Nel complesso, devo confessare, il film non mi ha per nulla deluso, almeno sulla base delle mie attese, perché si tratta di un prodotto dignitoso, dal punto di vista tecnico, accattivante e ruffiano quanto basta, dotato di un suo ritmo che riesce a tener desta l’attenzione. La trama si basa su personaggi psicologicamente monocordi, e tuttavia gradevoli, perché in opere di questo tipo, dal target molto definito, il cliché corrisponde ad una risorsa e non ad una caduta o ad una mancanza di fantasia.
Due giovani, maschio e femmina(lei, Nica, una Caterina Ferioli carinissima; lui, Rigel, un Biondo piuttosto inespressivo), che hanno in comune solitudine e disagio adolescenziale, sono ospitati in un orfanotrofio che sembra uscito da un film dell’orrore, vengono adottati da due genitori dalla dolcezza e simpatia irresistibili, frequentano la stessa scuola, con l’immancabile contorno di compagni – tipo, dal bulletto all’amica simpatica, a quella introversa (e segretamente gay).
L’ostilità manifesta fra i due ragazzi (Nica, dolce e paziente; Rigel scorbutico e solitario, scortese fino alla repulsione tanto da meritarsi l’appellativo, non lusinghiero, di “fabbricante di lacrime”) si trasforma col trascorrere del tempo in quello che era fin dal principio (e tutti gli spettatori lo sospettavano) un amore aspro e contrastato, soprattutto a causa delle ripulse di lui, che sotto la patina rozza nasconde una sensibilità acuta e un’indole generosa. L’happy end è rafforzato dalla inquadratura finale, in cui i due rivelano di essersi costruita una famiglia, con tanto di prole, dopo aver superato il tentato omicidio di un rivale falsamente comprensivo (in realtà un vilain disposto allo stupro) e un processo dall’esito incerto, in cui però, alla fine, verrà sconfitta la strega della favola, e cioè la direttrice dell’orfanotrofio che briga per riprendersi Rigel.
Come si può constatare, la trama non si fa mancare niente, e la professionalità di Genovesi (una vecchia volpe della nuova commedia italiana di intrattenimento) ha il merito di sostenere un intreccio che risulta un complesso ben ordito di spunti letterari della più diversa provenienza, ma soprattutto da quei romanzi (spesso veri capolavori) che un tempo erano destinati alle ragazze (destinatario esplicito anche del film): il cupo orfanotrofio prende spunto da quello descritto in Jane Eyre di Charlotte Bronte; il personaggio di Rigel è un Heathcliff dimidiato (anche per la dimenticabile prova attoriale di Biondo) di Emily Bronte, ; i conflitti – e gli amori – fra coetanei e compagni di classe possono a loro volta vantare una lunga tradizione che culmina nei serial di Netflix (che non a caso distribuisce la pellicola nella sua piattaforma).
Come spesso accade per i film di ampio successo, che vengono rifiutati d’emblée per un irritante forma di snobismo, Fabbricante di lacrime è un un film gradevole ed onesto, che mantiene tutte le sue promesse (ampiamente prevedibili), senza enfasi e senza pretese. La perplessità riguarda semmai la riproposta del luogo comune (diffuso peraltro nelle fonti citate e ancora in corso) che alla ragazza (e in genere alle donne) spetti il compito della cura nei confronti del disagio e della sofferenza del compagno, subendo magari un trattamento insegno pur di “guarirlo”. Senza che in simile comportamento debba essere condannato a priori (nel film è compensato dalla gentilezza nascosta e dallo spirito di sacrificio del ragazzo), bisogna ammettere che esso può condurre verso una china pericolosa, perché induce giovani donne a sopportare azioni indegne e magari le violenze del partner; giustifica insomma, e magari valorizza, una distorsione nei rapporti fra i generi di cui la cronaca recente ha offerto pessimi esempi.