Fabbricante di lacrime

Uno dei miei spiriti guida è, indegnamente, Umberto Eco, un intellettuale a tutto tondo che, a dirla in maniera un po’ rozza, ha ritenuto degno di attenzione e di studio i più diversi prodotti dell’ingegno umano, soprattutto letterari ed artistici, dall’estetica medievale ai fumetti porno. Probabilmente a causa della sua influenza mi sono ridotto a vedere il film di Alessandro Genovesi, Fabbricante di lacrime, (tratto, non so quanto fedelmente, dal romanzo di Erin Doom, scrittrice italiana nonostante le apparenze), e soprattutto a parlarne nel mio blog.

Nel complesso, devo confessare, il film non mi ha per nulla deluso, almeno sulla base delle mie attese, perché si tratta di un prodotto dignitoso, dal punto di vista tecnico, accattivante e ruffiano quanto basta, dotato di un suo ritmo che riesce a tener desta l’attenzione. La trama si basa su personaggi psicologicamente monocordi, e tuttavia gradevoli, perché in opere di questo tipo, dal target molto definito, il cliché corrisponde ad una risorsa e non ad una caduta o ad una mancanza di fantasia.

Due giovani, maschio e femmina(lei, Nica, una Caterina Ferioli carinissima; lui, Rigel, un Biondo piuttosto inespressivo), che hanno in comune solitudine e disagio adolescenziale, sono ospitati in un orfanotrofio che sembra uscito da un film dell’orrore, vengono adottati da due genitori dalla dolcezza e simpatia irresistibili, frequentano la stessa scuola, con l’immancabile contorno di compagni – tipo, dal bulletto all’amica simpatica, a quella introversa (e segretamente gay).

L’ostilità manifesta fra i due ragazzi (Nica, dolce e paziente; Rigel scorbutico e solitario, scortese fino alla repulsione tanto da meritarsi l’appellativo, non lusinghiero, di “fabbricante di lacrime”) si trasforma col trascorrere del tempo in quello che era fin dal principio (e tutti gli spettatori lo sospettavano) un amore aspro e contrastato, soprattutto a causa delle ripulse di lui, che sotto la patina rozza nasconde una sensibilità acuta e un’indole generosa. L’happy end è rafforzato dalla inquadratura finale, in cui i due rivelano di essersi costruita una famiglia, con tanto di prole, dopo aver superato il tentato omicidio di un rivale falsamente comprensivo (in realtà un vilain disposto allo stupro) e un processo dall’esito incerto, in cui però, alla fine, verrà sconfitta la strega della favola, e cioè la direttrice dell’orfanotrofio che briga per riprendersi Rigel.

Come si può constatare, la trama non si fa mancare niente, e la professionalità di Genovesi (una vecchia volpe della nuova commedia italiana di intrattenimento) ha il merito di sostenere un intreccio che risulta un complesso ben ordito di spunti letterari della più diversa provenienza, ma soprattutto da quei romanzi (spesso veri capolavori) che un tempo erano destinati alle ragazze (destinatario esplicito anche del film): il cupo orfanotrofio prende spunto da quello descritto in Jane Eyre di Charlotte Bronte; il personaggio di Rigel è un Heathcliff dimidiato (anche per la dimenticabile prova attoriale di Biondo) di Emily Bronte, ; i conflitti – e gli amori – fra coetanei e compagni di classe possono a loro volta vantare una lunga tradizione che culmina nei serial di Netflix (che non a caso distribuisce la pellicola nella sua piattaforma).

Come spesso accade per i film di ampio successo, che vengono rifiutati d’emblée per un irritante forma di snobismo, Fabbricante di lacrime è un un film gradevole ed onesto, che mantiene tutte le sue promesse (ampiamente prevedibili), senza enfasi e senza pretese. La perplessità riguarda semmai la riproposta del luogo comune (diffuso peraltro nelle fonti citate e ancora in corso) che alla ragazza (e in genere alle donne) spetti il compito della cura nei confronti del disagio e della sofferenza del compagno, subendo magari un trattamento insegno pur di “guarirlo”. Senza che in simile comportamento debba essere condannato a priori (nel film è compensato dalla gentilezza nascosta e dallo spirito di sacrificio del ragazzo), bisogna ammettere che esso può condurre verso una china pericolosa, perché induce giovani donne a sopportare azioni indegne e magari le violenze del partner; giustifica insomma, e magari valorizza, una distorsione nei rapporti fra i generi di cui la cronaca recente ha offerto pessimi esempi.

Un mondo a parte

Ho sempre provato una grande simpatia per Riccardo Milani, regista (e spesso sceneggiatore) di film eleganti e soffusi di un umorismo lieve ed accattivante. Nell’ambito della commedia italiana, è l’erede ideale di quelle opere raffinate e gradevoli (non senza, talvolta, uno spunto drammatico, appena suggerito) che hanno caratterizzato una zona precisa del cinema italiano degli anni Trenta e Quaranta (del tipo de Gli uomini che mascalzoni di Camerini e Quattro passi tra le nuvole di Blasetti); oppure i film dell’esordio registico di De Sica, prima della conversione al neorealismo (De Sica, com’è noto, era stato attore di quelle stesse opere: si pensi a Maddalena, zero in condotta in cui fu regista e interprete).

In questo piacevolissimo film, Un mondo a parte, Milani accompagna le vicende di un maestro elementare, Michele Cortese, interpretato da Antonio Albanese, che chiede (con una decisione che a tutti appare suicida) di abbandonare il posto di insegnante in una scuola della periferia romana (dove si sente inutile e continuamente ricattato dai parenti dei suoi giovanissimi allievi, con minacce di violenza) per trascorrere un anno di insegnamento in un paesino sperduto sui monti dell’Abruzzo: un luogo minacciato di sparizione, perché tutti, e specialmente i giovani, se ne vanno. La scuola elementare è l’unico legame che consente alla comunità di sentirsi unita, e attorno a cui gravita con le sue innumerevoli esigenze.

Il protagonista, un inguaribile fanatico dell’ecologia che avrà presto un’amara smentita nella sua mitizzazione dei paesi isolati in mezzo ai boschi e alla natura selvaggia, punterà proprio, assieme ad un’affascinante e assai spiccia collega (Virginia Raffaele, al colmo della simpatia), a mantenere aperta la scuola, ricorrendo a molti espedienti e superando le insidie del fellonissimo sindaco di un paese rivale, che sogna appunto l’abbandono dei piccoli villaggi della zona per favorire l’ennesima speculazione edilizia. La trama non è originalissima, come è del resto tipico del genere commedia; il film, tuttavia, vive grazie ad una sceneggiatura che scorre veloce, ricca di personaggi e di invenzioni. Si basa anche sulla recitazione degli attori principali, che riproducono con collaudata abilità le loro maschere abituale, adattate peraltro al contesto della trama: Albanese, idealista , impacciato ma irremovibile nonostante gli incidenti; Virginia Raffaele, ragazza disinvolta e tenace, con un pizzico di scetticismo che peraltro non vale a scoraggiarla. Una scelta felicissima è poi quella di aver scelto come attori di contorno gli abitanti dei luoghi in cui si svolge la vicenda, secondo una tecnica che richiama il neorealismo.

Il riferimento a questa gloriosa stagione del cinema italiano non è una semplice invenzione della messinscena, bensì rimanda ad una volontà di conoscere e far conoscere una realtà di disagio che troppo spesso è liquidata a forza di slogan o a commenti da talk show. Da questo punto di vista, pur senza tradire mai la sua vocazione di film di intrattenimento, Un mondo a parte sa graffiare ed incidere, ponendo davanti agli spettatori la realtà dell’abbandono di interi pezzi d’Italia a causa del calo delle nascite e, quindi, della necessità di migranti attivi e desiderosi di migliorare la loro sorte: essi costituiscono quindi non solo un problema, ma una ricchezza, una risorsa (e ne fa fede un’intera comunità di nordafricani che hanno fatto rivivere intere zone, altrimenti abbandonate, della valle del Fucino). Altrove, Milani incide a sangue, come nella sequenza desolante degli insegnanti, il nuovo proletariato, che si presentano in fila per ricevere un incarico nei paesi più disastrati, esattamente come i braccianti di un tempo, arruolati in piazza dai caporali. Del resto, è precisamente questo lo spirito che sorregge la cruda canzone di Ivan Graziani (gloria abruzzese) Taglia la testa al gallo, che scorre durante i titoli di coda: un’esortazione poco meno che rivoluzionaria.

In definitiva, proprio gli accenni ad una realtà scomoda, della quale gli spettatori sono chiamati ad avere almeno coscienza, rendono i film di Milani un prodotto che li innalza al di sopra del momentaneo piacere della risata e della situazione paradossale, per trasformarlo in un invito alla consapevolezza e all’impegno. Da questa prospettiva, si può osservare una distanza abissale, anche se possono essere inclusi sotto la stessa etichetta, rispetto ai cinepanettoni, o ai film di puro intrattenimenti di Steno ed epigoni, che esaltano un individualismo, una furbizia e una cialtroneria che rimandano alle parole d’ordine dell’epoca di Berlusconi e della Lega (come ha argomentato in modo convincente De Luna nel suo Cinema Italia).

Nella sequenza finale, che prelude all’atteso lieto fine, il protagonista (che giù aveva incontrato lo spirito della natura sotto forma di un cervo mite e smarrito) passa in macchina accanto ad una montagna che rifiorisce, a muratori che costruiscono nuovi insediamenti per ripopolare quei luoghi, ad un aquila che volteggia liberamente in cielo: è la rappresentazione di un’utopia. Ma l’utopia, come ci hanno insegnato gli intellettuali francesi del Settecento avversi all’ancien régime, corrisponde al desiderio di un futuro nuovo e diverso; o, almeno, il segno di un disagio che si può superare.

Priscilla

La macchina da presa si avvicina lentamente fino ad inquadrare in primo piano prima la nuca e poi il profilo di Priscilla, che volge gradualmente il viso verso gli spettatori. Il messaggio è chiaro e risponde da subito a quanti (prevedibilmente) avrebbero lamentato il fatto che di Elvis si parlerà poco, il minimo indispensabile, e tanto meno del suo successo e del suo carisma davanti ai fans (il fascino di Presley, che ha segnato un’epoca, è rappresentato una volta per tutte nella sequenza, altamente simbolica, del cantante isolato sul palco, di spalle, avvolto interamente come un’aureola, dalle luci della ribalta, fra gli osanna degli ammiratori). Il film però non riguarda lui, ma appunto Priscilla, la donna che ha sposato e di cui nel titolo non viene riportato neppure il cognome glorioso, proprio come se fosse una persona comune.

Sofia Coppola tenta infatti, riuscendoci perfettamente, un’analisi dell’interiorità, drammatica quanto sottaciuta, di una giovane donna coinvolta in una macchina che affascina e stritola: una coerenza mirabile, nel percorso di questa regista, che già aveva portato alla luce il disagio tragico e narcisistico delle Vergini suicide e lo sbandamento esistenziale di Maria Antonietta, regina di Francia, stritolata dal ruolo e dall’incapacità di uscirne, proprio come una ragazza dei nostri tempi, una Priscilla appunto, che non trova la forza di rompere le sbarre della sua gabbia dorata (ma la Coppola non si limita a cogliere le donne solo nel loro ruolo di vittime; ne mostra anche la terribilità, l’ipocrisia e una volontà di annientamento – per non essere schiacciate a loro volta? – pienamente all’opera nel cupissimo L’inganno).

Per Priscilla la regista fa uso di una sceneggiatura (scritta da lei stessa) e di uno stile di regia tutto in levare, smorzando il dramma, e trattenendo il melodramma (e da qui l’insipiente accusa di aver girato un film noioso) perché, da un lato, non si vuole infierire su un marito del tutto inadeguato, ma che forse non si è cessato di amare ( lo script deriva da un libro autobiografico della stessa Priscilla), dall’altro Coppola preferisce mostrare visivamente, nella sua lenta maturazione e senza passaggi forzati o didascalici, la presa di coscienza di una donna che si accorge a poco a poco di essere prigioniera, un uccello in gabbia.

La regista non dice, mostra: il moltiplicarsi degli oggetti da cui la giovane fidanzata (poi moglie) è circondata tanto da non potersene liberare; l’affetto che si spegne, con scatti improvvisi di aggressività, tutte le volte che “l’ospite” deroga dalle regole rigidissime della casa (una Graceland ben fuori del mito); l’annientamento della sua volontà, tutte le volte che Priscilla deve soccombere alle pretese del marito; i momenti di isolamento della ragazza, sola al centro di inquadrature completamente vuote; persino la differenza nell’altezza fra i due coniugi con Elvis (Jacob Elordi) che svetta al di sopra della minuta ma tutt’altro che passiva Priscilla (una meritatamente premiata Cailee Spaeny). Il congedo e l’allontanamento da Graceland (ancora in solitudine, ma è la solitudine di chi affronta deliberatamente il proprio destino) sigla ancora una volta, senza drammi, una scelta a favore della vita e della libertà, e non dell’autodistruzione che finisce per travolgere le fragili adolescenti della Coppola.

La comprensione, la singolare mancanza di acredine nei confronti dell’ex marito derivano, oltra che da un residuo di affetto, dall’empatia (anche questa sottotraccia, non dichiarata) per la sua debolezza caratteriale e per la fragilità emotiva di un uomo perennemente circondato da una banda di boys come in West side story: un indizio, forse, di omosessualità latente), e pesantemente eterodiretto dai maschi che si impongono su di lui fino ad annullarne la volontà (il manager, e il padre, severo e sgradevole nei confronti di una fidanzata e moglie troppo giovane, che non sa stare alle regole). Priscilla (e la Coppola con lei) comprende benissimo che Elvis ha tentato di rinchiudere lei nello stesso meccanismo di oppressione e annullamento che lui stesso ha subito, fino a ridursi (lui che non è riuscito a liberarsi) in un uomo penosamente inquieto, frustrato nella sua ricerca di spiritualità e che finisce per diventare, alla fine, un pachiderma enorme d abulico, gonfio di grasso e di infelicità.

Gli Effinger

Arrivare alla fine, e cioè a pagina 888 (utilissima postfazione esclusa), significare giungere sulla vetta della montagna, dopo un viaggio lungo, ma non arduo, non esasperante. Gli Effinger (Einaudi editore), romanzo della scrittrice e giornalista tedesca Gabriele Tergit (alias Elise Hirschmann, 1894 – 1982) si rivela la narrazione fluviale della storia di due famiglie ebree tedesche, imparentate fra loro, in un lasso di tempo che va dalla cancelleria di Bismarck fino all’avvento del nazismo e allo sterminio di molti dei personaggi nei campi di concentramento. Il capitolo finale mostra una Berlino devastata, con qualche bagliore di speranza per il futuro, ma con la desolazione delle famiglie disperse e delle loro dimore lasciate nell’abbandono (una nemesi storica, sembra suggerire l’autrice, una colpa dei tedeschi a cui le vittime, in specie proprio gli ebrei, non hanno saputo far fronte in modo efficace).

Il romanzo trae modello e ispirazione da un capolavoro di Thomas Mann, I Buddenbrook, a sua volta una saga famigliare, da cui si ricavano alcuni spunti e il colore per disegnare certi personaggi. Anche nel caso de Gli Effinger, il lettore si trova alle prese con un bildungroman, un romanzo di formazione, che lo guida dalla giovinezza all’età adulta di alcuni protagonisti, mentre altri si bloccano in una immaturità emotiva stroncata dalla morte, o anche dall’incapacità di andare oltre, di varcare la soglia.

Il romanzo di formazione è un tipico prodotto della cultura tedesca (basterebbe pensare a Goethe), anche se non si debbono trascurare esempi consimili in altre nazioni, più o meno nello stesso periodo: I Thibaud di Martin Roger du Gard in Francia e soprattutto La saga dei Forsyte di Galsworty in Inghilterra, eredi a loro volta della ciclopica impresa del ciclo di romanzi di Emile Zola, incentrati sulle intricatissime vicende della famiglia dei Rougon – Macquart.

Con una scrittura limpida ed accattivante, con il ritmo calibrato dei dialoghi, e l’incisività con la quale ricostruisce, con pochi tratti, gli interni delle dimore borghesi e gli esterni (la fabbrica, le piazze, i giardini, i locali notturni), Tergit documenta il fluire del tempo in una sinfonia maestosa, che riesce ad illustrare i cambiamenti dell’economia, la mentalità e le reazioni di uomini e donne che si vedono mutare irrimediabilmente, accanto, e dentro, la storia. Successi e crolli sono affrontati con imperturbabile compostezza. Gli avvenimenti principali (e cioè la prima guerra mondiale, la crisi economica della Repubblica di Weimar, la necessità di adattare ai tempi e alle esigenze moderne il prodotto delle fabbriche) vengono sempre colti dall’interno della cerchia industriale e borghese dei protagonisti, foltissima e sempre unita, nonostante gli inevitabili contrasti personali. Solo nella parte conclusiva, in cui l’ipocrisia dei nazisti che si insinuano lentamente come un cancro, con l’intento di escludere lentamente, e brutalmente, gli ebrei dai loro possedimenti e dal loro stesso diritto alla cittadinanza e alla vita, il ritmo assume cadenze più cupe, con la successione sempre più odiosa delle prepotenze, a cui gli ebrei oppongono troppo spesso ingenuità e impotenza. Forse qui si appunta una critica della Tergit ai suoi correligionari, che non hanno saputo interpretare i tempi ed avvertire i pericoli di un uomo crudele e fanatico come Hitler, che troppo spesso è stato sottovalutato alla stregua di un grottesco parvenu.

Alla fine la scrittrice dà atto alla lungimiranza degli ebrei che hanno abbandonato la Germania in tempo e hanno trovato una nuova esistenza nello stato di Israele. Questa scelta peraltro non produce né ammirazione né una particolare simpatia nella scrittrice, semmai una velata critica per quel tanto di costrittivo e illiberale coglie nel nuovo stato e soprattutto per quella sorta di tradimento che i nuovi coloni hanno operato ai danni della loro cultura, tedesca, di appartenenza.

Il filo conduttore, almeno emotivo, che lega il susseguirsi delle vicende e la miriade dei personaggi (si impone infatti un albero genealogico all’inizio, da consultarsi continuamente) consiste nella dimostrazione di come gli ebrei siano tedeschi fino in fondo, e che rechino in sé i frutti migliori della cultura liberale e del riformismo socialista (oltre che un’etica del lavoro che assume una valenza eroica): valori tutti che il nazismo ha sradicato, ma a cui anche gli ebrei non sono riusciti a rimanere fedeli fino alla fine (e si veda il drammatico confronto tra il saggio Waldemar – un modello di intelligenza e di tolleranza – e la nipote che progetta di partire per la Palestina, dove intende ricostruirsi una nuova vita).

Tergit si rende conto, pur senza esasperare i toni di una scrittura di mirabile medietas, che gli ebrei tedeschi, nella loro religione e cultura, sono scomparsi nei meandri della storia: da qui il rimpianto di quel mondo elegante ed industrioso, il fascino dei loro rituali, la perfezione dell’architettura e degli arredi delle loro case. Sono pagine ricche di luce e di partecipazione, che non risultano mai inerti e superflue.

Anatomia di una caduta

Bergman definisce “film da camera” le sue opere girate tutte in interni: scelta che gli dava agio di far affiorare, e portare al calor bianco, le passioni, gli odi repressi, i rovelli esistenziali, l’angosciosa ricerca dei personaggi principali, l’incomunicabilità. Il regista svedese si rivela un’indicazione quanto mai opportuna per comprendere questo bellissimo film di Justine Triet (sceneggiato con Arthur Harari, suo compagno nella vita), non solo per l’uso della tecnica cinematografica, molto prossima a quella riscontrabile in Luci d’inverno e ne Il silenzio: primi e primissimi piani, ambienti chiusi e asettici (specialmente l’aula del tribunale, un classico “non luogo”), grande investimento sull’interpretazione, su una sceneggiatura ed un montaggio così perfetti, da non lasciare momenti di stanchezza, e da conservare un ritmo sostenuto e coinvolgente, nonostante la notevole durata del film.

Visto esternamente Anatomia di una caduta sembra un legal – thriller, e come tale è stato spacciato dagli strilli pubblicitari. Le ragioni ci sono: l’opera si apre con una caduta mortale, un cadavere disteso a terra nella neve, un processo lungo ed estenuante, con drammatici battibecchi fra la moglie del morto, immediatamente sospettata di omicidio, e il pubblico ministero che indaga sul passato della vittima, porta alla luce i contrasti nella coppia, e cerca di mettere alle strette Sandra, la moglie, attribuendole motivazioni torbide ed egoistiche che l’avrebbero spinta ad un delitto perpetrato a freddo (ad accentuare la sua estraneità, rispetto al contesto sociale in cui si trova ad essere obtorto collo, l’accusata, di origine tedesca, si esprime con difficoltà in francese e preferisce testimoniare in inglese).

Tuttavia, nonostante le apparenze, il dramma non sta nel processo, o almeno non interamente, e a soccorrere lo spettatore viene ancora una volta uno dei capolavori di Bergman, Scene di un matrimonio (in origine una serie televisiva) incentrato su una spietata analisi del matrimonio, della sua fragilità e della miriade di sentimenti ostili (gelosia, invidia, stanchezza, noia) che lo insidiano fino a sfaldarlo: il legame matrimoniale, in definitiva, atrofizza i legami e li spezza, non li rende più stabili).

Così avviene dell’infelice coppia di Anatomia di una caduta, Sandra e Samuel: un matrimonio compromesso dal successo della moglie e dal fallimento (con conseguente frustrazione) del marito, che le rinfaccia di averlo soffocato e di avergli sottratto spazio creativo e vitale. Sandra lo accusa invece di aver provocato, in un momento di disattenzione, la cecità del figlio David, legatissimo ad entrambi. Da un simile complesso di rancori e ostilità irrisolte derivano feroci discussioni, accuse e sarcasmi, battute sprezzanti ed ultimatum che avvelenano la vita di coppia fino alle ripicche più puerili, segno appunto di una involuzione infantile: Samuel alza al massimo il volume della musica per impedire alla moglie l’intervista con una giornalista – fan.

La convivenza è incancrenita ad un punto tale, che solo l’eliminazione del componente più fragile e meno equilibrato (anche in termini di autocontrollo) può restituire una tranquillità che sembrava smarrita per sempre. Le sequenze finali nella quale la protagonista riceve le testimonianze di affetto dell’amico avvocato, del figlio e persino del cane, all’interno di una serenità domestica finalmente ritrovata, nasconde in realtà una verità molto amara: l’equilibrio ritrovato è la conseguenza di una espulsione, di una eliminazione violenta, che potrebbe anche essere la conseguenza di un gesto omicida.

All’analisi dura della vita di coppia si intreccia l’altro tema del film, sviluppato con tanta intensità e con tanta cura da farlo apparire (per me in modo ingannevole) l’elemento portante. La sceneggiatura insiste nell’illustrare tutti i passaggi di un processo interminabile; tuttavia il parere contrastante dei diversi esperti presentati dall’uno o dall’altra parte, e le arringhe degli avvocati non approdano mai ad una soluzione davvero convincente (sul piano della “verità” oggettiva, non su quella della “verità” processuale, che non coincide necessariamente con la prima e neppure con la giustizia).

La soluzione, provvisoria e non priva di ambiguità, viene dalla testimonianza del figlio cieco, offerta spontaneamente, dopo che la donna che lo assiste, lo pone di fronte alla possibilità di uscire dall’impasse processuale, senza peraltro alcuna garanzia di giungere alla verità: se quest’ultima non è conoscibile, non rimane che operare una scelta fra le due alternative, e credere fino in fondo a quella che appare più autentica. Non siamo lontanissimi dal celebre “salto nel buio” di kierkegaardiana memoria, anche se qui la posta in gioco non è la teologia ma la giustizia.

Ci sono infatti molte ragioni per credere che il ragazzo non dica la verità, quando riferisce le parole del padre, sufficienti a convincere i giudici che egli avesse davvero l’intenzione di suicidarsi, Infatti non è verosimilmente casuale che, nel flash – back che rievoca il colloquio fra i due, il padre non parli; l’unica voce che si sente, in sovraimpressione, è appunto quella del figlio che ha evidentemente deciso quale deve essere la verità. In questo modo l’armonia si ricompone a caro prezzo; ai superstiti resta l’amara consolazione che, se la giustizia non è conoscibile, forse è possibile trovarne un surrogato che consente di continuare a vivere.

Un altro ferragosto

Paolo Virzì è tre i pochi registi italiani, forse l’unico, che sa confezionare una commedia drammatica corale, fitta di personaggi e macchiette, con il ritmo scatenato di una sarabanda che richiama i capolavori satirici di un maestro come Pietro Germi ( penso in particolare a Sedotta e abbandonata) e di altri suoi epigoni. La prima parte del suo film appena uscito, Un altro ferragosto, seguito di Ferie d’agosto girato quasi trent’anni prima, si presenta come un coacervo di scene, scenette e sketch, con personaggi continuamente agitati, che si parlano addosso senza tregua. L’approdo che si ripete alla spicciolata di sempre nuovi arrivi segna il colpo di grancassa che scandisce il ritmo e permette il rilancio di un’azione sempre più convulsa, per attenuarsi poi, con un tempo più lento e dolente, nella seconda parte, e nel finale, in cui emerge con forza l’anima più amara e meditativa del film. Senza, peraltro, tradire lo spirito della commedia all’italiana, che è nel dna del regista toscano: pure le opere di quella memorabile stagione del cinema italiano, che si proponeva anche di offrire un ritratto impietoso delle arretratezze nazionali, si basavano su di un susseguirsi di azioni paradossali e grottesche con scioglimenti drammatici e fallimenti più o meno consapevoli (e basterebbe pensare solo a Il sorpasso o a Una vita difficile di Dino Risi).

Virzì gioca sullo stesso tavolo dei suoi grandi modelli, catapultando ancora una volta il suo gruppo di vacanzieri superficiali e cialtroni da una lato, e di intellettuali astratti e seriosi dall’altro, nella stessa isola di Ventotene che aveva fatto da sfondo al film precedente. L’ambizione non è mutata; ed è quella di fornire un quadro riconoscibile, sia pure deformato da un’ottica grottesca particolarmente feroce, della nuova Italia: al conflitto fra berlusconiani edonisti e zotici, che si opponevano alla cerchia ristretta e snob dei sinistrorsi duri e puri, si sostituisce quello fra le due anime, ancora contrapposte, dei gaudenti superficiali ed individualisti, fanatici dei reality e della dittatura degli influencer, e, per contro, dei libertari laici, ormai privi di ancoraggio, anticonvenzionali quasi per moda, ma segnati a loro volta dallo scetticismo e dalla crisi delle relazioni personali. Il loro patriarca, Sandro, ormai morente (un Silvio Orlando come sempre all’altezza del ruolo) non sa neppure percepire la realtà che lo circonda, preso com’è da un passato eroico e mitizzato, che ha segnato la sua militanza giovanile in un giornale di sinistra, ma lo ha anche imprigionato in un fanatismo astratto. Non per caso il passato che lui ricorda e in cui si immedesima – quello degli esuli antifascisti a Ventotene di cui vuole perpetrare il ricordo attraverso la ristrutturazione del pollaio che avevano costruito – è presentato in un rigoroso bianco e nero, in contrapposizione alla marea multicolore e rozza della volgarità che lo circonda, e che si illude di poter arrestare con parole pacate e le sue argomentazioni d’altri tempi.

Il confronto fra il vecchio film del 1996 e il nuovo riaffiora continuamente, richiamato non solo dal titolo, ma anche dagli inserti della prima opera in quella più recente e dalle foto degli attori (alcuni morti nel frattempo) che si scorgono sui mobili dei sopravvissuti e nei loro ricordi. L’occhio di Virzì però si è nel frattempo ancor più incupito, il grottesco dei visi e la concitazione sbracata delle azioni e delle parole cancellano anche quel minimo di umanità, quella sorta di infelicità inconsapevole ed inespressa, che pure avevano offerto una profondità umana al clan dei rozzi Mazzalupi. La nuova società italiana appare ancor più sopraffatta dalla cialtroneria, dalla superficialità, da un retroterra culturale ed emotivo ai limiti dell’infantilismo. Gli ignoranti orgogliosi di sé di una volta sono rimasti tali e quali; vi si aggiungono gli imbonitori di professione, gli influencer e i loro creatori, arroganti e umanamente miserabili, i nuovi falliti, quelli che si affannano a rimanere a galla, come il personaggio disegnato da Christian De Sica, che ripropone la sua maschera di gentiluomo vanesio e scroccone, sempre sull’orlo del baratro (e davvero ricorda una delle tante macchiette di suo padre).

Su questa umanità dispersa, ma spesso inconsapevole, spira una desolazione da fine del mondo, un’ansia distruttiva e apocalittica molto simile a quella che Virzì aveva espresso nel precedente Siccità, e che qui viene riassunta nel monologo di Emanuela Fanelli, interprete ricca di sfaccettature, che sa passare da un’antipatia scostante al pathos drammatico della consapevolezza di sé e del suo vuoto. Quello che il regista propone alla riflessione degli spettatori appare infatti un mondo in disfacimento, soprattutto quello irridente e festaiolo che riduce Lipari, luogo di Resistenza, a nuovo eden consumistico. Ma neppure si salvano gli oppositori, persi negli stessi slogan, nelle stesse debolezze, in un’astrazione che non tiene conto della realtà.

Tuttavia, come sempre nel suo cinema, Virzì non vuole (o non sa) abbandonarsi completamente alla disperazione. Se si rifiuta di schierarsi adottando un partito specifico (e del resto Meloni e Schlein sono comparse fugaci dentro una marea di chiacchiere e di luoghi comuni), arriva a ribadire che i valori che possono costituire un antidoto (illusorio?) al trionfo dei nuovi barbari sono pur sempre quelli della solidarietà e della cura, della coerenza con sé stessi, della tolleranza; valori che appaiono tutti legati alla Sinistra, per quanto malmessa.

Alla fine spetta ad un Sandro morente, e forse consapevole dei suoi errori (l’essersi negato all’azione, l’essersi chiuso in una torre d’avorio senza riuscire a vedere gli altri) dichiarare il suo orgoglio per i figli e la moglie, a lasciare la sua lotta in eredità al nipote affettuosissimo, a sentirsi attorniato da una solidarietà che non manca di affondi critici (da qui certo tono scherzoso dei figli), ma è autentica e partecipe. Dall’altra parte, le pecche dei Mazzalupi sembrano trasmettersi dal padre ai figli in termini di edonismo stolido e arrogante, di tradimenti e di inconsapevolezza sentimentale, in una infelicità sotterranea e diffusa che culmina nella rassegnazione della figlia e nel suicidio della pur tenera Luciana Mazzalupi (Paolo Tiziana Cruciani).

L’accusa

L’aereo è atterrato; se ne vede solo la cima che spunta oltre le costruzioni che costeggiano la pista e ne coprono interamente il corpo. Ne scende il protagonista, Alexandre, giovane, bello e privilegiato (Ben Attal, figlio del regista Yvan), che dà subito prova della sua gentilezza, aiutando una signora in difficoltà con la valigia, La sequenza iniziale rimanda a quella del sottofinale: la porta dello stanzino in cui si è consumato l’atto sessuale tra i giovani protagonisti rimane sbarrata per diversi secondi, e gli spettatori non sapranno mai se si è consumato uno stupro o un atto consenziente. L’occhio non ha potuto vedere quello che è rimasto coperto, e che non si riesce a definire perché, con tutta probabilità, i giovani gli hanno attribuito un significato opposto. Rimane certo un solo fatto: il ragazzo esce dal fatale stanzino indifferente, come se avesse spicciato un dovere vagamente fastidioso (all’origine c’è, infatti, una scommessa tra maschi); la ragazza invece, Mila, occupa tutta l’inquadratura con il suo viso disfatto e terreo, con i segni di una violenza subita. Una vittima c’è stata, anche se le circostanze rimangono oscure, e il tribunale deve accontentarsi, non di aver sentenziato il giusto, ma di aver applicato una legge tutta umana, che deve tener conto di molte varianti particolari, e soprattutto deve cercare di chiarire le intenzioni che hanno mosso il possibile violentatore (è stato uno stupro? un equivoco tragico? uno scherzo disgustoso finito male?).

Sono sufficienti poche ed immediate impressioni per comprendere la complessità e la riuscita realizzazione cinematografica de L’accusa di Yvan Attal (basato su un romanzo di Karine Tuil), che davvero approfondisce il tema, non solo della violenza perpetrata sulle donne, ma anche quello della relazione fra generi, in un contesto dove spesso affiorano la superficialità e l’aridità sentimentale. Nella sua calibratissima sceneggiatura, infatti, il film va molto oltre la notizia bruta sparata da un telegiornale spesso schierato e da certe trasmissioni di approfondimento, che in realtà si spingono ben poco al di sotto della superficie, adottando un settarismo di maniera (adeguato del resto alle richieste del pubblico). Al film, in realtà, i motivi che hanno prodotto il gesto, interessano almeno quanto il gesto stesso. In questa direzione fa piazza pulita dei tanti luoghi comuni che alimentano, appunto, la macchina dei media: la prevaricazione sessuale non è una prerogativa degli immigrati e neppure dei maschi rozzi e sottoculturati; le scelte di campo settarie e definitive (in questo caso il femminismo, ma anche il bigottismo religioso) franano quando si passa dall’universale al particolare, dalla persona genericamente intesa a tuo figlio; le differenze di classe e di censo contano, eccome.

Per stornare ogni accusa di manicheismo, Attal si guarda bene dal trasformare in figure edificanti le donne che appaiono nel film o a sottovalutarne i comportamenti ambigui: la madre dell’accusato (una grande Charlotte Gainsburg) “crede” di conoscere bene un figlio, che evidentemente chiude in sé lati oscuri e spregevoli; la giovane amante di Alexandre trae evidente profitto dalla relazione con il “capo” verso il quale, almeno inizialmente, prova avversione; esistono ragazze vane e superficiali che considerano il sesso un incidente trascurabile, a volte piacevole, a volte uno scotto che si deve pagare per togliersi di mezzo una persona sgradita; nel complesso qualcosa che si deve necessariamente subire.

Al centro del film, tuttavia, elemento portante di tutta la polemica morale che lo sostiene, sta la denuncia di un maschilismo tossico, tanto più pericoloso quanto più inconsapevole, frutto di indifferenza e di inerzia morale, e di una arroganza che pretende di sovrapporsi alla volontà di un’altra persona, una donna che, quando diventa oggetto sessuale, perde ogni possibilità di avere una sensibilità e una volontà autonome. “Se una ragazza accetta di seguire un maschio in un bugigattolo, può ben comprendere quello che si vuole da lei” afferma con la solita sicumera il padre cialtrone, sul quale cade molta parte della responsabilità per il comportamento di un figlio mai veramente conosciuto, in credito di affetto e persino della presenza fisica di un padre che evita, e non per caso, tutti gli incontri.

La verità, suggerisce nei fatti il regista, sta nel franamento dei rapporti a monte (né famiglia, né rapporti autentici con gli “adulti”), nella fragilità delle relazioni di gente che sceglie di andare per la sua strada, senza rimpianti per chi può aver turbato o ferito. Chi ha compiuto il gesto, però, non merita giustificazione.

Il colpo di scena avviene quando sia il protagonista che il suo amico, colpevole di aver ideato sfide indegne, confessano, spinti anche da una consapevolezza e una maturità finalmente raggiunte, la superficialità e il carattere spregevole del loro gesto. La finale richiesta di perdono del ragazzo è una spia ulteriore di una drammatica confusione di valori e di un modo indegno di essere maschi; tuttavia non annullano la visione in primo piano del volto sconvolto della vittima.

Felicitazioni. CCCP – Fedeli alla linea (Considerazioni di un boomer)

Questa volta non libri o film mi hanno stimolato a scrivere, bensì una mostra nei Chiostri di San Pietro di Reggio Emilia, in verità molto ben allestita, attraverso la quale il Comune ed altri enti hanno celebrato il quarantesimo dell’uscita dei primo disco dei CCCP- Fedeli alla linea, band punk e molto altro, che non ha mai negato il suo profondo radicamento nella terra emiliana.

La mostra prende avvio dai sei saloni introduttivi, organizzati con il contributo fondamentale del gruppo, e letteralmente colmo di oggetti – feticcio della band, accanto a reperti – simbolo di quei tempi (la seconda metà degli anni Ottanta del secolo scorso) e dei legami col mondo comunista, sotto specie sovietica, che in Italia aveva già lasciato il posto ad un suo superamento, auspice Togliatti, verso un confronto duro e polemico, ma basato sul reciproco riconoscimento, con la democrazia borghese: e proprio qui, dalla fedeltà allo spirito di un comunismo d’oltre cortina, nascono dissapori e divergenze nei confronti del PCI (mai comunque rinnegato) che culmineranno nell’album, dal titolo significativo, (Affinità e divergenze tra il compagno Togliatti e noi, 1985) e le non infrequenti contestazioni in molti festival dell’Unità, ai quali peraltro la band non ha mai rifiutato di esibirsi.

Nei piani superiori dei chiostri, l’esperienza diventa più immersiva, grazie ai molti saloni e ai pertugi (le cellette originarie) illuminati da luci intense e multicolori, alternate a spazi oscuri, con diverse istallazioni che attestano il percorso artistico della band: le canzoni del gruppo suonate a palla, immagini dei loro concerti, documenti delle loro esperienze culturali in Oriente e il confronto con quelle culture, titoli di giornali, a volte convinti, più spesso sconcertati dalle diverse anime del gruppo e dal loro piglio provocatorio.

E’ legittimo interrogarsi sul valore di un simile evento dopo tanti anni (ma la band si è ricompattata di recente e promette alcuni concerti in località ancora ignote). La risposta è facile: i CCCP sono un pezzo non trascurabile di storia culturale italiana, che vi si riflette ampiamente nei suoi rapporti con le società e la musica alternativa europee e orientali: evidenti i rapporti col punk inglese, mescolato però a molte altre suggestioni (anche autoctone) che rendono i CCCP qualcosa di assolutamente originale.Di solito si pensa al mondo punk anglosassone, quando ci si trova di fronte a performances che fanno scatenare e trascinano gli spettatori verso il limite, ma sarebbe davvero uno sbaglio trascurare l’apporto della cultura italiana specifica, regionale addirittura, come fanno fede i numerosi testi che nominano l’Emilia, e le sue città principali (ed è legittimo dunque, che proprio Reggio Emilia abbia allestito la mostra, quella stessa città che aveva dato spazio ed ispirazione ad uno scrittore alternativo come Vittorio Tondelli, poeta degli outsider e degli emarginati e fan proprio dei CCCP). Non inganni il titolo di una canzone come Emilia paranoica, che sembra uscita di getto dall’officina di un poeta futurista (o del Gruppo ’63); testo che assomma in sé una grande varietà di sensazioni dissonanti, tra cui sicuramente la noia e lo sperdimento, ma anche un legame viscerale con i luoghi che danno la possibilità di “camminare leggero soddisfatto di me / da Reggio a Parma, da Parma a Reggio, a Modena, a Carpi al Tuwait” (e del resto la paranoia non può essere intesa in senso negativo, annullante l’umanità, per un ex assistente di pazienti psichiatrici come Giovanni Lindo Ferretti).

Il fulcro dell’esperienza artistica dei CCCP – Fedeli alla linea è lo spettacolo, la performance che solo in parte è musicale: ne sono protagonisti un cantante (Giovanni Lindo Ferretti), che spesso non canta ma ricorre ad una sorta di salmodiare ipnotico; un chitarrista, Massimo Zamboni, corresponsabile della musica; Annarella Giudici, una strepitosa ballerina – trasformista che concepisce e realizza da sé gli stravaganti vestiti di scena, non di rado utilizzando materiali poveri (ad esempio le scatolette delle confezioni di nivea ); un artista del popolo, Danilo Fatur, scatenato e irruente, che riesce talvolta a stupire gli stessi compagni sul palco. E provocazioni, provocazioni continue, appelli a protestare rumorosamente (anche contro loro stessi), a contestare in modo aggressivo, sulla falsariga di un Marinetti adattato agli anni Ottanta, quello della “voluttà di essere fischiati”, delle “serate futuriste” spiazzanti, del mito di uno “spettacolo totale” che comprendesse musica, ballo, giochi di luce, improvvisazione, inventiva stravagante.

Nella band lo spettacolo mira a realizzare lo scatenamento di impulsi repressi, il desiderio di avvicinarsi al limite, la risposta fisica alla musica e al canto attraverso gli ondeggiamenti e il ballo, che realizzano nel pubblico quel senso di liberazione, un “uscire da sé” che è caratteristico dei concerti rock e punk e che ricordano tanto i rituali bacchici dell’antichità, o le cerimoniale delle popolazioni premoderne consumatrici rituali di stupefacenti: è un complesso di emozioni irrazionali, prive di freni inibitori, che avevano dato sostanza a tante espressioni dell’avanguardia europea.

Il centro nevralgico delle esibizioni della band è dato dalle canzoni, che si giovano del testo di Giovanni Lindo Ferretti, personalità dall’alta caratura artistica, e dall’irrequieta ricerca personale, che lo ha condotto da posizioni libertarie e di sinistra estrema (sempre però attraversate da lampi mistico – religiosi, e da una speciale devozione alla Madonna anche nel suo più acceso periodo punk), ad una religione sempre più tradizionale, forse intesa come possibilità estrema di bloccare l’angoscia per il “franamento” e la dissoluzione del mondo, temi ricorrenti nei suoi testi), all’adesione al partito di destra della Meloni, che ha suscitato tanto scandalo nei suoi fans (ma le accuse dei più fedeli è parte integrante della cultura punk, con la ricorrente deplorazione che i loro miti siano diventati merce e schiavi del capitale).

Al di là di tutto, però, Ferretti un poeta di grande suggestione, coltissimo (ben pochi cantautori sanno citare con disinvoltura il Pasolini de L’usignolo della Chiesa cattolica), dall’ispirazione assai coerente, nella sua angoscia per la deriva mentale, per il franamento della realtà, e il senso di smarrimento reso tangibile dall’accavallarsi delle frasi e dal brusco mutarsi e trasfigurarsi delle sensazioni. La perfetta realizzazione del testo di una canzone come Esco (un’autentica poesia: “Scorteccio le parole /aride schegge adatte al fuoco // è l’instabilità che ci fa salvi ormai /negli sgretolamenti quotidiani”) rimanda, come tutta la poesia di Ferretti, a modelli letterari ben riconoscibili; echi di Fenoglio (carissimo a Ferretti), mescolati a suggestioni del Montale pietroso di Ossi di seppia e, sullo sfondo, l’esperienza rivoluzionaria del Gruppo ’63. Ce n’è quanto basta per far riemergere un’epoca e una cultura: dunque il ricordo di quella stravagante e stravolgente band appare, più che legittimo, doveroso.

Non c’è pace tra gli ulivi

Raiplay offre la ghiotta occasione di vedere (o rivedere) un importante classico del neorealismo di impronta nazionalpopolare (con intenti, sia pure in sottordine, di documento antropologico e con suggestioni memorialistiche: il regista apre il film intervenendo direttamente nella prima, studiatissima, sequenza, affermando di essere figlio proprio di quella terra ingrata, la Ciociaria, in cui l’azione si svolge). L’opera in questione è Non c’è pace tra gli ulivi (1950) di Giuseppe (detto Peppe) De Santis, che cercò di bissare il grande successo di Riso amaro (1948), a cui è strettamente collegato: stesso interprete maschile, Raf Vallone, un’interprete femminile, Lucia Bosé del tutto degna del confronto con Silvana Mangano non disponibile perché incinta (con buona pace di Calvino che aveva fatto della Mangano un mito), stessi autori della sceneggiatura (oltre allo stesso De Santis, Gianni Puccini e Libero De Libero, ciociaro a sua volta, tutti intellettuali più o meno organici al Pci).

L’intenzione di denunciare un problema sociale drammatico del dopoguerra è evidente fin dal titolo: nonostante il conflitto sia terminato, la pace non si è realizzata ancora in tante parti d’Italia afflitte da una miseria endemica e da rapporti sociali ormai fossilizzati da secoli. Al contrario è sorta una nuova categoria di sfruttatori, i fattori, spesso imboscati o collaboratori dei tedeschi, che approfittano dell’assenza degli uomini più giovani, partiti per il fronte, per derubare ancor di più un proletariato ormai avvezzo alle prepotenze, sostituendosi ai nobili (con il loro beneplacito), nel secolare sfruttamento di contadini e pastori.

In Non c’è pace fra gli ulivi si affronta di petto anche un’altra crisi sociale del dopoguerra, che aveva già sollecitato l’interesse polemico del cinema (Il bandito di Lattuada e Caccia tragica dello stesso De Santis) e della letteratura (La paga del sabato di Beppe Fenoglio): il ritorno dei reduci, il loro smarrimento, l’impossibilità di trovare lavoro in una Italia devastata, con l’inevitabile tentazione di violare la legge pur di sopravvivere. Il protagonista, Francesco Dominici, è infatti un reduce che, tornato dalla guerra, non trova più un’occupazione, e scopre che il suo gregge gli è stato rubato da un truce fittavolo, Agostino (Folco Lulli, una perfetta incarnazione del vilain), con l’ambizione di estendere i suoi possedimenti su tutta quanta la zona e di imporre la sua legge; né più né meno dei tedeschi di cui gli italiani si sono da poco liberati; e non certo per caso nel momento di maggior pericolo per lui, imbraccia il mitra che aveva nascosto, esattamente come un soldato della Wermacht. Per sopravvivere, Francesco sottrae a sua volta le sue pecore al ladro (“Rubare il tuo al ladro non è rubare ” sentenzia il saggio del paese), e incappa nei rigori della legge: da qui una serie di peripezie che permettono di sovrapporre al protagonista la figura del brigante, tanto cara al folclore meridionale e al romanzo d’appendice, che infrange la legge per ristabilire la giustizia.

Fedele ad un’intenzione che già aveva ispirato i suoi film precedenti, De Santis si propone anche intenti documentari, mostrando sullo schermo una realtà sociale regionale pressoché sconosciuta alle altre parti d’Italia, nei suoi rapporti sociali arretrati, nel suo essere fuori della storia, nel ripetersi di rituali religiosi che, pur se mascherati da processioni mariane, rivelano pienamente il loro sottofondo pagano (in questo film, i penitenti, uomini malati e deformi che chiedono “la grazia”, fra cui si nasconde il fuggiasco, che procede in ginocchio, in atto di penitente). Lo stesso si può dire dell’ambiente naturale, dei modestissimi casolari, poco più che ripari, e della pratica della transumanza, di certo ignota a molti spettatori.

Il film mostra con grande evidenza il lavoro di ricerca del regista, assai complesso, e caratterizzato dalla volontà di tenere in un equilibrio difficile, ma realizzato nella sostanza, diverse istanze anche contraddittorie fra loro, tutte peraltro subordinate alla volontà di far conoscere e di sensibilizzare, in un’ottica politica, i problemi sociali del momenti: problemi che possono essere risolti soltanto attraverso la reazione di tutto il popolo consapevole ed unito. I film di De Santis sono tutti “corali” e presuppongono sempre la ribellione degli sfruttati all’ingiustizia sociale, sempre però nell’ambito di una collaborazione, più o meno difficile e problematica, con le forze dell’ordine e con le istituzioni “borghesi”, ma democratiche, della Repubblica.

Per favorire la comprensione e la partecipazione emotiva del pubblico, il regista si serve volentieri della tecnica del fotoromanzo (come già in Riso amaro) ricorrendo a primi piani e ad inquadrature fisse, usando spesso il campo – controcampo decisivo nei fumetti e, appunto, nei fotoromanzi. Adotta anche i caratteri più vistosi dei generi allora di moda, il melodramma sentimentale, a cui presta un contributo decisivo il fascino della Bosé (che si cimenta in un elegante e sensuale saltarello, per distrarre i soliti ingenuissimi carabinieri), la sfida di sapore gangsteristico, il western nostrano (specie nella parte finale), l’umorismo della classica “macchietta” napoletana, molto diffusa anche nei “musicarelli” dell’epoca.

Per altro verso (e qui sta la voluta ambiguità) De Santis mira in alto, imprimendo ai suoi personaggi pose statuarie e ferme, con primi piani intensi che ricordano il cinema epico di Eisenstein, anche nell’efficacia dei rapporti spaziali fra personaggi e lo sfondo, brullo ma suggestivo che li avvolge. Non c’è pace tra gli ulivi si risolve quindi in una classica espressione di arte nazionalpopolare, come si è detto; ma il regista impone ai suoi attori una recitazione a tratti non realistica, quasi straniante, alla Brecht, con cui condivide la concezione di un’arte posta al servizio della prassi politica. Come si vede, arte colta e arte popolare, raffinatezza elitaria e concessioni al gusto popolare si incrociano con esiti nel complesso positivi, e in una riuscita dell’intenzione di fondo che, peraltro, non tarderà ad andare in crisi dopo pochi anni, lasciando l’impressione di qualcosa di bello, ma definitivamente tramontato. Il film costituisce infatti una pietra miliare. Ma, passata la stagione neorealista, De Santis non ritroverà più interamente l’efficacia dei suoi anni migliori.

Gli occhi di Tammy Faye

Il biopic sembra proprio tipico del cinema americano, tanto è vero che il film più grande ed incisivo di questo genere rimane Quarto potere di Orson Welles, storia del trionfo e della caduta di un grande magnate dell’editoria. Infatti proprio da quest’opera è stato ricavato spesso (ma anche dalla cronaca) la falsariga abituale della biografia, romanzata o meno, di un grande uomo: ascesa, culmine del successo e rovina. Va da sé che il valore e la riuscita di una biografia (soprattutto cinematografica) stanno nella capacità degli autori di proiettare il personaggio sullo sfondo sociale, storico e politico di un’epoca e di offrire agli spettatori, attraverso le vicende di quel singolo uomo, un affresco critico del periodo in cui visse. Grande autore di biopic, per intenderci, è il Martin Scorsese di Aviator e di Toro scatenato, e di tanti film del filone gangsteristico, incentrato su un personaggio, più o meno emergente, della microcriminalità: ben pochi autori hanno saputo, come lui, raccontare l’America attraverso gli americani, più o meno illustri.

Nonostante la scarsa considerazione che gode in rete per me, a torto) , Gli occhi di Tammy Faye risulta un esempio tutt’altro che spregevole di questo filone: attraverso l’ascesa e la caduta di due telepredicatori risalta in primo piano un’America sconosciuta e sconcertante (tale fu in genere per i viaggiatori europei): quella dei predicatori carismatici, e di una profonda e pervasiva religiosità popolare che si esprime in canti e danze , in svenimenti rituali, in un settarismo tanto violento quanto irrazionale, nel momento in cui si avvale, per convincere e sedurre, della televisione e degli strumenti più emotivamente coinvolgenti degli spettacoli di massa (coreografie, canto, luci stroboscopiche e paillettes, confessioni pubbliche pensate ad hoc per sedurre e raccogliere offerte). Usando precisamente questo armamentario da baraccone, la coppia di predicatori travolge ogni traguardo nel gradimento del pubblico: marito e moglie non si peritano, infatti, di chiamare show, spettacolo, le loro prediche e i loro sermoni da imbonitori, infarciti di citazioni bibliche e arricchiti da effetti di son et lumière.

Di fronte a tanta fama (e all’inevitabile sfruttamento delle donazioni per i propri interessi privati, le spese voluttuarie e le speculazioni bancarie – e immobiliari – quanto meno disinvolte) il regista Michael Showalter e la sceneggiatrice Abe Sylvia (ma la fonte è il documentario di Bailey e Barbato) cominciano ad insinuarsi dubbi e riflessioni amare sul fondo irrazionale e fanatico di certa religiosità istintiva ed incontrollata, facilmente sfruttabile da abili faccendieri, quando non addirittura stimolo per la violenza o la perdita di sé (celebre la sequenza di Paris, Texas, di uno sconcertato Wim Wemders che, nella sua ottica europea ed illuminista, fatica ad inquadrare il delirio religioso e mistico di uno sbandato). Nel film, la problematica si allarga poi a documentare le capacità di manipolazione che simili predicatori sanno utilizzare ai danni di una popolazione intellettualmente e culturalmente fragile (il ventre molle dell’America), facilmente abbordabile attraverso l’uso abile e creativo della televisione e dello spettacolo.

D’altro canto, a dimostrare quanto poco generose siano state le critiche di quanto hanno accusato il film (presente anche sulla piattaforma Disney +) di piattezza e superficialità, il regista si interroga sull’autenticità della fede dei suoi protagonisti, soprattutto della moglie, Tammy Faye, ; e sembra giungere alla constatazione di una sua genuinità di fondo, certo mescolata ad una buona dose di cinismo e dalla tentazione di “apparire”, di possedere oggetti di lusso (un’adesione, in fondo, ad uno stile di vita americano che la donna paga con un’infelicità di fondo e con un massiccio ricorso ai barbiturici).

Infatti, nel punto più basso della sua caduta, Tammy inforca gli occhiali per vedere meglio e più distintamente (e il gesto è reale e simbolico nello stesso tempo), rendendosi conto degli sbagli commessi e trovando la forza per una rinascita (peraltro spetta a lei, più che al pavido marito, il merito di aver resistito al condizionamento politico dei conservatori e di aver promosso la causa della piena accoglienza degli omosessuali in nome, appunto, dell’amore di Dio che non fa questioni di sesso e di genere).

Di sicuro rimangono nodi irrisolti, e gli interrogativi su un’America così pronta a lasciarsi tentare dalle parole dell’uomo forte e carismatico di turno ( Trump? anche se non è citato per evitare anacronismi), rimangono ed inducono ad una riflessione autocritica che la parte migliore della cultura americana non cessa di porre davanti agli occhi dei connazionali.

N:B:: A proposito delle capacità seduttive e potenzialmente criminali delle sette carismatiche, suggerisco l’ottimo serial In the clearing, di produzione australiana, un thriller cupo, raccontato e diretto benissimo (sempre su Disney +).

Dedicato a Tommaso Benelli