L’accusa

L’aereo è atterrato; se ne vede solo la cima che spunta oltre le costruzioni che costeggiano la pista e ne coprono interamente il corpo. Ne scende il protagonista, Alexandre, giovane, bello e privilegiato (Ben Attal, figlio del regista Yvan), che dà subito prova della sua gentilezza, aiutando una signora in difficoltà con la valigia, La sequenza iniziale rimanda a quella del sottofinale: la porta dello stanzino in cui si è consumato l’atto sessuale tra i giovani protagonisti rimane sbarrata per diversi secondi, e gli spettatori non sapranno mai se si è consumato uno stupro o un atto consenziente. L’occhio non ha potuto vedere quello che è rimasto coperto, e che non si riesce a definire perché, con tutta probabilità, i giovani gli hanno attribuito un significato opposto. Rimane certo un solo fatto: il ragazzo esce dal fatale stanzino indifferente, come se avesse spicciato un dovere vagamente fastidioso (all’origine c’è, infatti, una scommessa tra maschi); la ragazza invece, Mila, occupa tutta l’inquadratura con il suo viso disfatto e terreo, con i segni di una violenza subita. Una vittima c’è stata, anche se le circostanze rimangono oscure, e il tribunale deve accontentarsi, non di aver sentenziato il giusto, ma di aver applicato una legge tutta umana, che deve tener conto di molte varianti particolari, e soprattutto deve cercare di chiarire le intenzioni che hanno mosso il possibile violentatore (è stato uno stupro? un equivoco tragico? uno scherzo disgustoso finito male?).

Sono sufficienti poche ed immediate impressioni per comprendere la complessità e la riuscita realizzazione cinematografica de L’accusa di Yvan Attal (basato su un romanzo di Karine Tuil), che davvero approfondisce il tema, non solo della violenza perpetrata sulle donne, ma anche quello della relazione fra generi, in un contesto dove spesso affiorano la superficialità e l’aridità sentimentale. Nella sua calibratissima sceneggiatura, infatti, il film va molto oltre la notizia bruta sparata da un telegiornale spesso schierato e da certe trasmissioni di approfondimento, che in realtà si spingono ben poco al di sotto della superficie, adottando un settarismo di maniera (adeguato del resto alle richieste del pubblico). Al film, in realtà, i motivi che hanno prodotto il gesto, interessano almeno quanto il gesto stesso. In questa direzione fa piazza pulita dei tanti luoghi comuni che alimentano, appunto, la macchina dei media: la prevaricazione sessuale non è una prerogativa degli immigrati e neppure dei maschi rozzi e sottoculturati; le scelte di campo settarie e definitive (in questo caso il femminismo, ma anche il bigottismo religioso) franano quando si passa dall’universale al particolare, dalla persona genericamente intesa a tuo figlio; le differenze di classe e di censo contano, eccome.

Per stornare ogni accusa di manicheismo, Attal si guarda bene dal trasformare in figure edificanti le donne che appaiono nel film o a sottovalutarne i comportamenti ambigui: la madre dell’accusato (una grande Charlotte Gainsburg) “crede” di conoscere bene un figlio, che evidentemente chiude in sé lati oscuri e spregevoli; la giovane amante di Alexandre trae evidente profitto dalla relazione con il “capo” verso il quale, almeno inizialmente, prova avversione; esistono ragazze vane e superficiali che considerano il sesso un incidente trascurabile, a volte piacevole, a volte uno scotto che si deve pagare per togliersi di mezzo una persona sgradita; nel complesso qualcosa che si deve necessariamente subire.

Al centro del film, tuttavia, elemento portante di tutta la polemica morale che lo sostiene, sta la denuncia di un maschilismo tossico, tanto più pericoloso quanto più inconsapevole, frutto di indifferenza e di inerzia morale, e di una arroganza che pretende di sovrapporsi alla volontà di un’altra persona, una donna che, quando diventa oggetto sessuale, perde ogni possibilità di avere una sensibilità e una volontà autonome. “Se una ragazza accetta di seguire un maschio in un bugigattolo, può ben comprendere quello che si vuole da lei” afferma con la solita sicumera il padre cialtrone, sul quale cade molta parte della responsabilità per il comportamento di un figlio mai veramente conosciuto, in credito di affetto e persino della presenza fisica di un padre che evita, e non per caso, tutti gli incontri.

La verità, suggerisce nei fatti il regista, sta nel franamento dei rapporti a monte (né famiglia, né rapporti autentici con gli “adulti”), nella fragilità delle relazioni di gente che sceglie di andare per la sua strada, senza rimpianti per chi può aver turbato o ferito. Chi ha compiuto il gesto, però, non merita giustificazione.

Il colpo di scena avviene quando sia il protagonista che il suo amico, colpevole di aver ideato sfide indegne, confessano, spinti anche da una consapevolezza e una maturità finalmente raggiunte, la superficialità e il carattere spregevole del loro gesto. La finale richiesta di perdono del ragazzo è una spia ulteriore di una drammatica confusione di valori e di un modo indegno di essere maschi; tuttavia non annullano la visione in primo piano del volto sconvolto della vittima.

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