Non c’è pace tra gli ulivi

Raiplay offre la ghiotta occasione di vedere (o rivedere) un importante classico del neorealismo di impronta nazionalpopolare (con intenti, sia pure in sottordine, di documento antropologico e con suggestioni memorialistiche: il regista apre il film intervenendo direttamente nella prima, studiatissima, sequenza, affermando di essere figlio proprio di quella terra ingrata, la Ciociaria, in cui l’azione si svolge). L’opera in questione è Non c’è pace tra gli ulivi (1950) di Giuseppe (detto Peppe) De Santis, che cercò di bissare il grande successo di Riso amaro (1948), a cui è strettamente collegato: stesso interprete maschile, Raf Vallone, un’interprete femminile, Lucia Bosé del tutto degna del confronto con Silvana Mangano non disponibile perché incinta (con buona pace di Calvino che aveva fatto della Mangano un mito), stessi autori della sceneggiatura (oltre allo stesso De Santis, Gianni Puccini e Libero De Libero, ciociaro a sua volta, tutti intellettuali più o meno organici al Pci).

L’intenzione di denunciare un problema sociale drammatico del dopoguerra è evidente fin dal titolo: nonostante il conflitto sia terminato, la pace non si è realizzata ancora in tante parti d’Italia afflitte da una miseria endemica e da rapporti sociali ormai fossilizzati da secoli. Al contrario è sorta una nuova categoria di sfruttatori, i fattori, spesso imboscati o collaboratori dei tedeschi, che approfittano dell’assenza degli uomini più giovani, partiti per il fronte, per derubare ancor di più un proletariato ormai avvezzo alle prepotenze, sostituendosi ai nobili (con il loro beneplacito), nel secolare sfruttamento di contadini e pastori.

In Non c’è pace fra gli ulivi si affronta di petto anche un’altra crisi sociale del dopoguerra, che aveva già sollecitato l’interesse polemico del cinema (Il bandito di Lattuada e Caccia tragica dello stesso De Santis) e della letteratura (La paga del sabato di Beppe Fenoglio): il ritorno dei reduci, il loro smarrimento, l’impossibilità di trovare lavoro in una Italia devastata, con l’inevitabile tentazione di violare la legge pur di sopravvivere. Il protagonista, Francesco Dominici, è infatti un reduce che, tornato dalla guerra, non trova più un’occupazione, e scopre che il suo gregge gli è stato rubato da un truce fittavolo, Agostino (Folco Lulli, una perfetta incarnazione del vilain), con l’ambizione di estendere i suoi possedimenti su tutta quanta la zona e di imporre la sua legge; né più né meno dei tedeschi di cui gli italiani si sono da poco liberati; e non certo per caso nel momento di maggior pericolo per lui, imbraccia il mitra che aveva nascosto, esattamente come un soldato della Wermacht. Per sopravvivere, Francesco sottrae a sua volta le sue pecore al ladro (“Rubare il tuo al ladro non è rubare ” sentenzia il saggio del paese), e incappa nei rigori della legge: da qui una serie di peripezie che permettono di sovrapporre al protagonista la figura del brigante, tanto cara al folclore meridionale e al romanzo d’appendice, che infrange la legge per ristabilire la giustizia.

Fedele ad un’intenzione che già aveva ispirato i suoi film precedenti, De Santis si propone anche intenti documentari, mostrando sullo schermo una realtà sociale regionale pressoché sconosciuta alle altre parti d’Italia, nei suoi rapporti sociali arretrati, nel suo essere fuori della storia, nel ripetersi di rituali religiosi che, pur se mascherati da processioni mariane, rivelano pienamente il loro sottofondo pagano (in questo film, i penitenti, uomini malati e deformi che chiedono “la grazia”, fra cui si nasconde il fuggiasco, che procede in ginocchio, in atto di penitente). Lo stesso si può dire dell’ambiente naturale, dei modestissimi casolari, poco più che ripari, e della pratica della transumanza, di certo ignota a molti spettatori.

Il film mostra con grande evidenza il lavoro di ricerca del regista, assai complesso, e caratterizzato dalla volontà di tenere in un equilibrio difficile, ma realizzato nella sostanza, diverse istanze anche contraddittorie fra loro, tutte peraltro subordinate alla volontà di far conoscere e di sensibilizzare, in un’ottica politica, i problemi sociali del momenti: problemi che possono essere risolti soltanto attraverso la reazione di tutto il popolo consapevole ed unito. I film di De Santis sono tutti “corali” e presuppongono sempre la ribellione degli sfruttati all’ingiustizia sociale, sempre però nell’ambito di una collaborazione, più o meno difficile e problematica, con le forze dell’ordine e con le istituzioni “borghesi”, ma democratiche, della Repubblica.

Per favorire la comprensione e la partecipazione emotiva del pubblico, il regista si serve volentieri della tecnica del fotoromanzo (come già in Riso amaro) ricorrendo a primi piani e ad inquadrature fisse, usando spesso il campo – controcampo decisivo nei fumetti e, appunto, nei fotoromanzi. Adotta anche i caratteri più vistosi dei generi allora di moda, il melodramma sentimentale, a cui presta un contributo decisivo il fascino della Bosé (che si cimenta in un elegante e sensuale saltarello, per distrarre i soliti ingenuissimi carabinieri), la sfida di sapore gangsteristico, il western nostrano (specie nella parte finale), l’umorismo della classica “macchietta” napoletana, molto diffusa anche nei “musicarelli” dell’epoca.

Per altro verso (e qui sta la voluta ambiguità) De Santis mira in alto, imprimendo ai suoi personaggi pose statuarie e ferme, con primi piani intensi che ricordano il cinema epico di Eisenstein, anche nell’efficacia dei rapporti spaziali fra personaggi e lo sfondo, brullo ma suggestivo che li avvolge. Non c’è pace tra gli ulivi si risolve quindi in una classica espressione di arte nazionalpopolare, come si è detto; ma il regista impone ai suoi attori una recitazione a tratti non realistica, quasi straniante, alla Brecht, con cui condivide la concezione di un’arte posta al servizio della prassi politica. Come si vede, arte colta e arte popolare, raffinatezza elitaria e concessioni al gusto popolare si incrociano con esiti nel complesso positivi, e in una riuscita dell’intenzione di fondo che, peraltro, non tarderà ad andare in crisi dopo pochi anni, lasciando l’impressione di qualcosa di bello, ma definitivamente tramontato. Il film costituisce infatti una pietra miliare. Ma, passata la stagione neorealista, De Santis non ritroverà più interamente l’efficacia dei suoi anni migliori.

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