L’occhio più azzurro

 

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Toni Morrison, scrittrice americana di colore insignita del premio Nobel per la letteratura nel 1993, ha concepito questo L’occhio più azzurro (L’occhio più blu, nella recentissima edizione dei”Meridiani” Mondadori) nei tardi anni Sessanta (verrà pubblicato nel 1970). In quel periodo la condizione dei neri stava attraversando un’autentica rivoluzione dal punto di vista politico, e dei diritti civili (il nome di Martin Luther King si impone), ma probabilmente un’altra “rivoluzione”, non meno importante, ha dominato la stesura del romanzo. Si allude alla consapevolezza, che la popolazione nera ha cominciato ad intuire, di se stessa, della sua storia, della sua specificità culturale che trovano posto nella contemporanea storia degli Stati Uniti, ma anche se ne distinguono per molti aspetti.
Il romanzo si pone infatti, prima di tutto, come uno scandaglio dentro la condizione nera; uno scandaglio avviato da una testimone costretta alla scrittura, proprio perché (secondo la sua dichiarazione) non era ancora stato scritto il romanzo che lei avrebbe voluto leggere, e cioè un romanzo che parlasse di neri, con un’esatta consapevolezza dei fatti e con un linguaggio che solo in apparenza era l’americano adottato da tutti gli altri scrittori. Il libro esordisce infatti con una lunga tiritera (la descrizione di un’ipotetica famiglia bianca felice), scritta appositamente per il libro di lettura di bambini molto piccoli e molto ingenui: avvolta in un bozzolo di falsità caramellosa e di luoghi comuni fuorvianti. La scrittrice ripete il brano in continuazione, e deformandolo anche attraverso un uso distorto dei segni grafici, ne fa esplodere la falsità e il superficiale ottimismo. D’altro canto, la presa di distanza riguarda anche tutti gli altri scrittori neri che hanno preceduto la Morrison, e da cui bisogna separarsi perché la sua voce suoni più autentica: lontani sono Richard Wright di Ragazzo negro, con la sua scelta politica radicale; lontano Langston Hughes, così tentato dall’integrazione da dimenticare quasi se stesso, non fosse per la persecuzione che subisce continuamente; meno lontano Baldwin, che non tratta solo di neri avendo in mente “il problema nero”, ma scende fino ad illustrare i drammi di una condizione emarginata come quella di omosessuale e a documentare lo stile di vita di una comunità nero – americana fortemente condizionata dal religioso.
In apparenza, sembrerebbe che tutto questo non trovi una reale attuazione ne L’occhio più azzurro, dato che il romanzo racconta la vicenda (torbidissima, ma raccontata in toni tutt’altro che enfatici o artificialmente crudi, semmai con un registro di scrittura “normale”, venato di tristezza) di un incesto e di uno stupro, che avrà, come conseguenza, lo sperdimento della ragazzina stuprata e la consapevolezza di un’aridità che sembra estendersi dalla terra “nera” alla comunità che la vive. Ma la vita disgraziata di Pecola, la protagonista, viene raccontata attraverso il punto di vista di una collettività di donne che assiste da lontano, commenta, giudica attraverso il suo linguaggio fatto di espressioni colorite, un po’ slang, un po’ calco delle Scritture. La trama abbandona la struttura narrativa, coerente dal punto di vista logico e cronologico, caratteristica del romanzo ottocentesco, per inoltrarsi in un racconto franto e sussultante, in cui personaggi minori appaiono e scompaiono subito dopo aver commentato la loro vita, in cui le vicende sono narrate da diversi punti di vista, in cui i personaggi sono abbandonati per poi essere ripresi a distanza. L’esistenza di ognuno, insomma, è una massa disgregata di eventi che si cerca disperatamente di tenere insieme; eventi che ciascuno rivive dal profondo della sua sensibilità e subiscono accentuazioni diverse a seconda della psicologia e dello stato d’animo di ogni individuo. Il modello artistico, non dichiarato ma implicito, appare allora la musica jazz, spezzata eppure dotata di un suo infallibile ordine interno, improvvisata ma proprio per questo dolorosa ed intensa.
Morrison racconta un dramma, ma illustra anche la vita quotidiana di una comunità nera che possiede tutti i crismi della normalità, e in cui la vita non si discosta in definitiva dalle difficoltà dei suoi vicini bianchi. Ma la prima condizione di questo essere come gli altri consiste nell’accettare la propria condizione (la propria “negritudine”) come un dato naturale e non una condanna. Il dramma dell’infelice Pecola non si esaurisce solo nella violenza di un padre che sa offrirle solo un amore distorto, ma proprio nel non potersi (e sapersi) accettare nella bellezza del suo essere nera. “Gli occhi azzurri” del titolo alludono alla sua disperata volontà di avere occhi come quelli di un bianco, come quelli della bambina prodigio Shelley Winters, che è al contrario una falsa meta, un concentrato di banalità bianche. Eppure ella vorrebbe proprio quello, gli occhi, che finirebbero per deturpare la sua autentica bellezza, in cambio di una mostruosità insensata.
Alla fine, si diceva, neri e bianchi sono affratellati dalla stessa difficoltà a vivere, dalla stessa infelicità. La comunità afro – americana soffre esattamente come quella bianca, quando le si infligge dolore e umiliazione: proprio come l’ebreo del shakesperiano Mercante di Venezia, tanto caro alla Morrison . Solo, ai neri spetta un fardello in più che consiste nel loro essere invisibili dentro la comunità in cui vivono, e nel loro desiderare di non essere quello che sono: il peccato più grande per la scrittrice

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