Ripley

Non ho mai letto il romanzo di Patricia Highsmith Il talento di Mister Ripley, ma non è escluso che un giorno voglia farlo. Intanto però mi interrogo sul fatto che questo romanzo abbia avuto un numero davvero notevole di trasposizioni cinematografiche, una dei primi anni Sessanta Delitto in pieno sole di René Clement, con un ottimo Alain Delon, e uno del 1999, con lo stesso titolo del romanzo, di Anthony Minghella che, confesso, ho trovato piuttosto noioso, e infine questo ottimo serial targato Netflix, Ripley, che segue da presso il romanzo, ed accentua, non risolve, l’ambiguità finale riguardante la possibilità di assicurare il colpevole alla giustizia.

L’attenzione del cinema e dei numerosi lettori deriva dal fatto che la Highsmith (genialmente voglio aggiungere) abbia condensato in una trama intrigante (ma essenzialmente priva di azione per cui può diventare lasca nelle mani sbagliate) tutta una serie di paure e di angosce che la nostra epoca ha ormai quasi inconsapevolmente introiettato, ma che la letteratura del secolo scorso, e anche quella del tardo Ottocento, aveva posto pienamente in luce. Uno dei tratti più affascinanti della versione seriale di Steven Zaillian (anche sceneggiatore) sta proprio nell’abilità con cui tali angosce vengano portate allo scoperto, non in modo esplicito, ma attraverso il metodo, schiettamente cinematografico, delle immagini allusive e degli snodi dell’intreccio.

La storia è incentrata sulla truffa che un anonimo imbroglione, mister Ripley appunto (ha le fattezze e il modo di comportarsi, falsamente timido, dell’uomo comune, splendida interpretazione di Andrew Scott) compie ai danni di un ricco ed inerte rampollo dell’alta borghesia americana, fuggito in Italia con grandi mezzi, e disposto a scialacquare qui i suoi molti soldi e mettere alla prova il suo modesto talento di pittore. Ripley, fingendo di essere suo amico, ne assume gradualmente l’identità, assecondando i suoi gusti e indossando i suoi vestiti. Al culmine dell’imbroglio, lo uccide, in una sequenza tra le più drammatiche, per impossessarsi definitivamente della sua identità, e far sparire le sue tracce.

Il primo sussulto psicologico del lettore / spettatore sta qui: Highsmith mette pienamente in luce la fragilità della personalità umana, debole, ingenua, facilmente manipolabile. Persino l’astuta e diffidente Marge (Dakota Fanning) cade alla fine nella trappola, spinta da un suo bisogno, alquanto snob, di essere conosciuta ed apprezzata dall’alta società, anche se prova un’antipatia istintiva per il falso amico del fidanzato e tallona da presso il colpevole, da cui alla fine si lascia irretire.

La ricchezza e il privilegio, o anche una ordinaria condizione di benessere, non mettono affatto al sicuro i privilegiati, anzi li devitalizzano e li rendono facile preda di avidi ed astuti criminali che vivono di espedienti: già l’aveva intuito Joseph Losey nel suo splendido film Il servo. Ripley, come un Raskolnikov non travagliato dal senso di colpa, ritiene di essere giustificato nel compiere il suo delitto dal fatto che egli sia infinitamente superiore alla sua vittima: un Caravaggio con cui si identifica spesso, andando alla ricerca delle sue opere, e di cui accentua i connotati criminali, rispetto ad un pittorucolo da strapazzo, che conta appunto come i pidocchi di Raskolnikov. A lui dunque, e non all’altro, spettano il privilegio della ricchezza e il godimento di un sontuoso palazzo veneziano. Per altri versi, il truffatore viene identificato, attraverso le allusioni del montaggio alternato, alla statuetta di un diavolo piccolo e meschino, che sembra accompagnarlo continuamente.

Di fatto, al di là delle ambizioni colte e dalla smania di elevarsi socialmente che lo proiettano in una dimensione di eccezionalità, il regista è molto attento a mostrare quello che spinge veramente il demone meschino al delitto: la brama di possedere, l’ossessione per gli oggetti di lusso che sembrano dar valore all’esistenza inerte, da feneant del pittore fallito: significativa l’apparizione intermittente, ma continua, del frigorifero, autentico status – symbol del periodo storico in cui la fosca trama si svolge (l’Italia dei tardi anni Cinquanta, ormai vicinissima al boom economico).

L’identità e lo status sociale sono insomma minacciati da piccoli arrampicatori, avidi e senza scrupoli, che ammantano di ambizioni eroiche la loro lucida e cinica astuzia (il talento di Ripley, appunto). Ma proprio la razionalità viene sconfitta in questo mondo di inganni e trappole ben congegnate. Se gli ispettori di polizia si ostinano a segnalare indizi e coincidenze sui loro calepini senza concludere nulla, ed anzi rimanendo vittima degli imbrogli del protagonista, sarà l’intervento del caso, il granello di sabbia nell’ingranaggio, che potrà segnare il punto di cedimento dell’ingegnosa invenzione, il crollo del castello di carte abilmente montato (nel romanzo della Higsmith il protagonista è terrorizzato dal fatto che la polizia, presto o tardi, verrà a bussare alla sua porta). L’arroganza di tenere tutto sotto controllo risulta infine illusoria.

Ripley si presenta dunque come una serie di ottima fattura, superiore a tutte le versioni cinematografiche che ne sono state fatte. Il regista si prende tutto il suo tempo nel rappresentare una torbida vicenda con un occhio attentissimo all’atmosfera e al ritratto d’ambiente (si serve molto bene, fra l’altro, degli attori italiani presenti nel cast, in particolare Margherita Buy e Maurizio Lombardi, come non aveva saputo fare Minghella). La fotografia, in bianco e nero, è perfetta; nitida nel cogliere le sagome delle persone e i contorni degli oggetti (veri e propri protagonisti): un’alta lezione di cinema.

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