Cento domeniche

Cento domeniche è la quantità di tempo impiegato da un artigiano lombardo (non certo un “fancazzista”) per costruirsi la sua casa, in un periodo in cui il lavoro manuale, specializzato o meno, era il centro dell’attività economica dell’Italia. Adesso le cose sono cambiate, come sperimenta con amarezza Antonio Riva, il protagonista del bellissimo Cento domeniche, diretto, interpretato e in parte sceneggiato da Antonio Albanese. Adesso il volano dell’economia, anzi l’economia stessa, è data da un sistema finanziario di cui le banche sono l’espressione più diretta e più a contatto con il lavoratore, con il popolo un tempo mitizzato. Ma la relazione fra due contraenti è retta dalla fiducia, inossidabile per Antonio, che rivela una coerenza e una moralità assolute e una religione quasi calvinista del lavoro, mentre risulta pressoché nulla nell’istituto bancario, che briga per manipolare i clienti prestatori, e vende loro titoli tossici per tentare speculazioni ed accrescere il capitale. In più costringe il protagonista ad un prestito – capestro che sa bene che non potrà mai onorare (parole che, in un simile contesto, suona quanto mai beffarda). Quello della banca è una proposta moralmente abietta, ma legalmente ammissibile, perché la firma posta in calce al contratto (“Ma chi li legge i contratti?” esclama disperato Antonio) obbliga il cliente ad accettare l’abisso che gli si spalanca davanti. E non solo di lui si tratta: la banca è un’organizzazione a delinquere (come sosteneva con sarcasmo Bertolt Brecht) che finisce per ingoiare anche i suoi collaboratori, gli impiegati a più stretto contatto col pubblico, mentre i manager vengono trasferiti altrove, in perfetta impunità, e i grossi capitalisti vengono informati in tempo per mettere al sicuro i loro soldi. Nel mezzo, come sempre, i piccoli e medi risparmiatori che non hanno protezioni di sorta.

Comincia dalla rivelazione che la banca sta affondando la parabola discendente (un’autentica via crucis) del lavoratore un tempo eroe, che va alla deriva non solo per il denaro perso (in fondo potrebbe ancora cavarsela) ma perché si disintegrano gli ideali, i punti di forza sui quali ha costruito la sua stabilità, esattamente come ne Il grido di Antonioni, che tanto somiglia al film di Albanese. Il lavoratore onesto pretende che i patti stabiliti vengano rispettati, e su questo punto non è disposto ad arretrare: per questa ragione Antonio si isola, non partecipa ad una class action che gli sembra condotta da parolai, non accetta aiuti dalla figlia, non rinuncia all’idea di offrirle il banchetto di nozze perché gli spetta, è un suo privilegio / dovere a cui non può rinunciare: allo stesso modo l’operaio disoccupato di Piovono pietre di Ken Loach finisce nelle mani degli strozzini pur di comprare un vestito nuovo per la comunione alla figlia.

Cento domeniche non è solo la denuncia di un sistema economico che ha dimenticato ed umiliato il lavoro, e un monito a non chiudere gli occhi davanti alle scaltrezze ipocrite del capitalismo finanziario (l’aveva fatto anche Paolo Virzì in uno dei suoi capolavori, Il capitale umano). Da un lato il film vuole avere il valore documentario di una scena di vita contemporanea, dall’altro, e più in profondità, si risolve in un epicedio sul tramonto di una cultura, quella del lavoro, di cui i lombardi hanno sempre menato gran vanto. La rovina del protagonista è anche la catastrofe di un sistema morale che da sempre si è retto sulla fiducia della stretta di mano nei contratti, e su una moralità assoluta, senza eccezioni (Antonio si rifiuta di ascoltare le parole, forse di pentimento, dell’amante che lo ha respinto in un momento di crisi e dunque ha tradito il patto d’amore). Per chi prende la vita sul serio, e non si arrende alla superficialità edonistica dei tempi nuovi, pronti a tutto, non esiste soluzione se non la presa d’atto che per lui non c’è più posto.

Antonio Albanese dirige un film di grande valore e spessore contenutistico, obbligando lo spettatore a fare i conti con sé stesso senza moralismo. La figura del protagonista non risplende in piena luce, dato che risaltano, accanto al suo destino di vittima, anche i limiti di una ostinazione eroica, per certi versi, ma anche autodistruttiva ed individualistica: la sua morte non offre spiragli. Il regista punta sulla rappresentazione della cittadina di provincia (Olginate, che è anche il suo luogo di nascita) grigia e disadorna, concentrata sulla semplicità dei divertimenti e di un tenore di vita di moderata dignità, ma con imperativi morali e sociali molto forti: una provincia d’altri tempi su cui si abbatte il ciclone di una modernità complicata e truffaldina, che non vede né i volti né le persone.

Albanese è memore del modo di filmare di quei registi del neorealismo (ma anche di Loach) che poco concedevano al melodramma o alla situazione tragica, ma puntavano su uno sguardo obiettivo che non si rifiutava di mostrare la sofferenza e il dramma delle persone semplici (e mi vengono in mente Blasetti e Castellani). Il film prende forza anche da una sceneggiatura che sa ben dosare il dramma, sciogliendolo nella quotidianità e scandendo con gradualità la discesa agli inferi del protagonista. Con una scelta di grande efficacia, utilizza la tecnica standard dei film dell’orrore: l’incongruenza, la smagliatura nella normale vita quotidiana lascia affiorare l’inquietudine per “qualcosa che non va”, per un pericolo latente che infine esplode nelle sue spaventose conseguenze.

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