L’inganno

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Per un caso fortuito (a suo modo intrigante), mi capita di intervenire, in successione, su due opere che affrontano lo stesso tema (la relazione – necessariamente conflittuale? – fra i due generi), con esiti, se non proprio opposti, certo molto divergenti. Da un lato, quindi Sleeping beauties dei King; dall’altro, bellissimo e inquietante, L’inganno di Sofia Coppola, regista da cui non mi dispiace imparare (in coppia con Francesca Archibugi) quello che sanno sulle donne.

Ma prima, ad evitare la colpa di sottovalutare il valore artistico del film, a vantaggio del suo spessore contenutistico, vorrei ribadire che la regista raggiunge qui un alto livello espressivo, ed un’eccellente realizzazione figurativa, nella rappresentazione del profondo Sud degli Stati Uniti durante la Guerra di Secessione. Sulla scorta della pittura contemporanea agli eventi, Sofia Coppola marca lo svolgimento della cupa vicenda attraverso quadri paesaggistici di grande seduzione visiva: albe e tramonti ricchi di fascino; inquadrature i cui si mescolano luci ed ombre, e percorse da un’inquietudine, da una vibrazione che regola la tensione del film, e anticipa il tragico finale. Il conflitto che sta alla base dell’opera è tutto racchiuso nel paesaggio: alle donne spettano l’oscurità e la foresta, la vegetazione che cresce incontrollata; all’unico maschio la costruzione, architettonicamente razionale, ma pretenziosa ed ancorata al falso antico dei suoi frontoni e delle sue colonne doriche, della dimora gentilizia in cui la signorina Martha ha organizzato la scuola per signorine. L’edificio rimane, e rimarrà per sempre, coperto e nascosto dalla vegetazione, ad anticipazione di ciò che avverrà a conclusione della storia.

La scuola è una comunità femminile in apparenza priva di qualsiasi turbamento: ragazze di diversa età, guidate dalla matura direttrice (che sa sparare e non disdegna di “ricevere” e conversare con l’ospite offrendogli un delizioso bicchierino), occupate in diverse mansioni (cucito, giardinaggio) per impiegare il tempo. E’ una comunità senza dissapori o tensioni, in apparenza, mentre intorno infierisce la più crudele delle guerre (“Andiamo a portare questi prigionieri a morire in un campo di prigionia”, afferma senza mezzi termini un ufficiale sudista) e la fame di quanti tentano di sopravvivere. Il disordine, però, viene da dentro: i sentimenti incontrollati, il desiderio di evasione, le pulsioni sessuali accuratamente celate dalla compostezza esteriore e dal cerimoniale, dai monili e dai vestiti eleganti sfoggiati quando si presenta a tavola, mosca nella ragnatela, un nordista ferito. Tutto il rimosso affiora, in particolare proprio l’attrazione sessuale e il fascino quasi ipnotico del corpo nudo del maschio che le donne vogliono lavare e accudire, attratte anche dai suoi modi seduttivi di gentleman. Basta questo a scatenare il disordine, e a mettere in moto rivalità e pulsioni accuratamente nascoste: diventa frenetica la gara alle visite (proibite) al ferito, si cerca di catturare l’interesse del maschio, che diventa, di volta in volta, la tartaruga giocattolo della bambina, ma anche la mosca incappata nella ragnatela. L’elemento estraneo, alla fine, viene espulso, non solo metaforicamente: ucciso e deposto fuori del cancello, avvolto in un sudario accuratamente confezionato dalle ragazze, che dimostrano qui la loro elegante (e letale) arte di legare e cucire.

il plot (sceneggiatura perfetta della stessa Sofia Coppola) è ricavato da un romanzo di Thomas Cullinan, The beguiled (L’ingannato), che aveva già fornito lo spunto ad un precedente film di Don Siegel (conosciuto in Italia come La notte brava del soldato Jonathan), una pellicola ferocemente misogina. La regista scarta vistosamente il precedente, e si rifà in maniera diretta al romanzo, perché la sua intenzione e le sue esigenze espressive sono completamente diverse: la mollezza e il fascino avvolgente dei colori, la fonda, cupa introspezione, l’atmosfera sospesa ed ambigua del thriller psicologico, e non l’efficiente rapidità e l’espressionismo del collega maschio. Di più: alla Coppola interessa approfondire la natura e la psicologia di questa collettività di donne, osservandole dall’interno, e svelarne senza reticenze il tratto inquietante, la zona d’ombra in cui sono immerse. A tale scopo si spinge molto oltre, non senza coraggio, e giunge a denunciare quanto facilmente le donne possano credere (o inventare) di essere state vittime di una violenza in un gioco che, in realtà, è stato condotto da loro.

A differenza dei King, e del loro femminismo di maniera, la regista non crede affatto che una comunità chiusa, autosufficiente e autoreferenziale possa costituire una soluzione accettabile al male che le donne hanno ricevuto nel corso della storia, proprio perché quello steso male è anche dentro di loro, come dimostra molto chiuaramente il suo primo film Il giardino delle vergini suicide, un capolavoro sottoposto a continue riscoperte. Violenza, frustrazione, inganno (di sé e degli altri), istinto di morte sono connaturati nell’animo umano, senza distinzioni di genere. La solitudine (e ancor più l’isolamento) impoverisce, e crea mostri; non rende più forti.

In più, si annida nell’animo femminile un’oscurità, una vena cupa che le apparenta all’ombra, all’inconscio, al selvaggio, e le attrae verso una inconsapevolezza crudele. Da questo punto di vista, il maschio, mostrato nella sua superficialità e nella sua presunzione, nel suo ridicolo senso senso di sicurezza, appare loro un trastullo, ma anche l’unico in grado, proprio per la sua diversità, di offrire equilibrio, di contrastare la vegetazione selvaggia che le rappresenta; un ruolo ben simboleggiato dal “mettere in ordine il giardino” incolto.

Sembra di leggere (e forse la Coppola lo ha fatto) le pagine iniziali del libro cardine di Camille Paglia, femminista eretica, intitolato Sexual personae, la dove l’autrice esprime la sua ammirazione per l’attitudine logica e razionale del maschio, capace di grandi costruzioni architettoniche, e sottolinea invece la natura ctonia della donna, la sua attrazione per l’istinto e la passionalità selvaggia,

La sintesi (e dunque l’accordo, il compromesso) fra queste due nature, è la soluzione che l’umanità cerca da tempo, e che in questi torbidi anni si è fatta sempre più convulsa e drammatica e, dunque, sempre più lontana. L’isolamento, comunque, la solitudine regressiva non giovano. Da esse si ricava un frutto amaro, di cui la tristissima inquadratura finale offre una sintesi mirabile: in primo piano, il corpo del maschio imbozzolato nel suo sudario splendidamentre confezionato come una mosca nella ragnatela; sullo sfondo, sotto il portico del palazzo, la comunità di donne strette l’una accanto all’altra, disperatamente sole, consapevoli della loro capacità di violenza e frustrate (almeno una di loro) nel desiderio di essere fuori, lontane.

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